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Questo articolo è stato pubblicato il 19 settembre 2013 alle ore 06:49.

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«Caro Signor Presidente...». I grandi disgeli incominciano quasi sempre così. Con uno scambio epistolare fra i capi, qualche dose misurata di intimità e l'evidenza che l'interesse nazionale dei due Paesi in questione porta a quel disgelo utile a tutti. Agli Stati Uniti è accaduto con l'Unione Sovietica di Gorbaciov e, prima, con la Cina di Mao. Ci avevano provato anche Yitzhak Rabin e Yasser Arafat ma con risultati discutibili.
È in questo modo che forse - sottolineare il forse è fondamentale - siamo all'inizio della fine dell'ultima guerra fredda del XX secolo: quella fra Stati Uniti e Iran, iniziata nel 1979. L'ammissione di Barack Obama, qualche giorno fa in un'intervista alla Abc, di avere un rapporto epistolare con Hassan Rohani, in fondo non è sorprendente. Qualcosa di nuovo nell'aria fra Stati Uniti e Iran era scritto sui sassi già da qualche tempo. Se non ancora disegni politici evidenti, tanti episodi quasi quotidiani lo confermano.
Da tempo Barack Obama cercava un dialogo, anche quando a Teheran c'erano solo sordi. Accusato di difendere la sicurezza d'Israele, riguardo al nucleare iraniano ha saputo contenere le smanie di Netanyahu, scegliendo sempre la strada della pressione diplomatica ed economica (le sanzioni) alla minaccia militare. Dopo tanta pazienza, Rohani ha finalmente incominciato a rispondere. La scelta di un ministro degli Esteri come Javad Zarif che da giovane ha studiato in Colorado, e un negoziatore sul nucleare come Ali Akbar Salehi, equivale a un messaggio di distensione.
C'è stata una riapertura e una immediata richiusura di internet, come se si volesse saggiare la reazione dei duri del regime. E ieri sono stati liberati alcuni detenuti politici. Ma qualche cosa di più importante potrebbe accadere. Il settimanale tedesco Spiegel sostiene che Rohani è pronto a smantellare la centrale nucleare di Fordo. Più segreta e inespugnabile delle altre, Natanz e Isfahan. Il presidente iraniano sarebbe pronto ad aprire il sito agli ispettori dell'Agenzia atomica Onu e a rimuovere le 696 centrifughe capaci di arricchire l'uranio ben oltre il 20 per cento. In cambio chiede agli Stati Uniti la progressiva fine delle sanzioni.
Il 24 settembre Rohani sarà a New York a parlare all'Assemblea generale dell'Onu. Potrebbero esserci grandi sorprese: forse l'annuncio dell'offerta su Fordo, forse un incontro con Barack Obama. Forse solo un discorso pieno di promesse, comunque sufficiente per fare andare avanti le cose. I piccoli passi sono più sicuri e a volte più utili. I tempi sono ormai maturi.
Barack Obama sarà ricordato più per le riforme di casa, che per sua la politica estera. La guerra che lo farà entrare nella storia americana, se vi entrerà, non è quella con Bashar Assad ma quella contro Wall Street. Alla fine del suo mandato fra tre anni, anche questo presidente, come i predecessori, non sarà riuscito a ridurre drasticamente gli arsenali nucleari del mondo né a far firmare una pace a israeliani e palestinesi. Ha trattato le Primavere arabe con una politica "on demand": una per ogni Paese, dall'intervento armato in Libia all'accettazione del golpe militare in Egitto.
Nel campo della politica estera a Obama resta solo il grande riavvicinamento con l'Iran: il regime che aveva assaltato l'ambasciata americana e sequestrato i suoi diplomatici, che sostiene Hezbollah, che nega l'Olocausto ebraico, che vuole la bomba atomica. Ad essere onesti c'è anche un punto di vista iraniano: per il petrolio iraniano la Cia ha fatto cadere Mohammed Mosaddegh e sostenuto fino alla fine lo Scià; l'America ha appoggiato e armato l'aggressione di Saddam Hussein, senza minacciare ritorsioni quando l'Iraq usava il sarin contro le truppe iraniane; garantisce la protezione strategica ai Paesi arabi del Golfo, principalmente in chiave anti-iraniana.
Non è un male avere contenziosi di uguale quantità: i "grandi satana", se sono due, possono elidersi più facilmente. Sono tanti i nemici di questa prospettiva: 34 anni di guerra fredda hanno avuto il tempo di stratificare almeno due generazioni piene di ostilità. La guida suprema resta sempre Khamenei ma neanche lui può ignorare la crisi economica e il voto popolare che ha bocciato tutti i suoi candidati alternativi a Rohani. Anche per la destra repubblicana a Washington, l'Iran è il nemico perfetto islamo-terroristico-nucleare.
Ma gli avversari più duri potrebbero non essere in Iran o in America ma in Israele e in Libano: Bibi Netanyahu e Sayyed Nasrallah. Il primo ha vinto le ultime elezioni sulla minaccia iraniana alla quale non può rinunciare quasi per motivazioni ideologiche. Il pericolo più grave che invece teme il leader di Hezbollah non è la caduta di Bashar Assad ma che l'Iran non sia più interessato ad avere quella profondità strategica fino alla Galilea israeliana che gli garantisce il movimento sciita libanese. Senza, Hezbollah diventerebbe un partito libanese come gli altri.
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