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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2013 alle ore 08:20.

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Obama apre a un accordo-ponte per separare bilancio e tetto del debito - La Cina: tutelare i nostri investimenti

di Mario Platero

NEW YORK – Parola d'ordine: "spacchettare" il bilancio dal rinnovo del tetto sul debito. È questa la proposta su cui ha aperto ieri la Casa Bianca per risolvere almeno a breve la parte finanziaria di questa crisi fiscale americana. Oddio, la facciata è rimasta: Obama pubblicamente ha continuato a parlare di linea dura, ha chiesto alla Camera repubblicana di risolvere i due problemi insieme e subito. Ma anche il Senato si è mosso.
Per venerdì dovrebbe essere pronta una proposta di legge per innalzare il tetto sul debito.

Ma il groviglio, politico, di mercato, geopolitico resta. Ci sono infatti tre livelli su cui si gioca la doppia partita fiscale americana, quella sullo "shutdwon", la serrata del Governo e quella della scadenza per il tetto sul debito. Il primo è di politica interna, un braccio di ferro tra repubblicani e democratici che guarda già alle elezioni di metà mandato dell'anno prossimo. Finora Barack Obama, che si trova in vantaggio sui repubblicani davanti all'opinione pubblica, aveva rifiutato di separare le due questioni, chiedeva che il Congresso facesse il suo dovere, tenendo aperto il Governo e rinnovando il tetto sul debito per spese già allocato dallo stesso Congresso. Boehener aveva accennato alla possibilità di separare le due cose privatamente, ma poi domenica ha fatto marcia indietro in risposta ai toni duri di Obama.

Se mettiamo la questione politica al primo posto è perchè la questione non riguarda banche o stabilità di mercato o debolezza reale dell'economia americana, riguarda solo una differenza fondamentale fra i due partiti sulla direzione che deve imboccare il Paese: più tasse e più stato come vorrebbe la Casa Bianca di Obama o meno tasse, meno assistenza e più mercato come vorrebbero i repubblicani.
Il problema è che con elezioni per il Congresso ogni due anni, la questione diventa difficile da risolvere persino alla urne. La via sarà dunque quella del compromesso. Se davvero si toglierà l'ostacolo del rinnovo del tetto sul debito resterà la minaccia della serrata del Governo. E su quel fronte per ora non si vedono spiragli.

Questo ci porta al secondo livello, ai mercati. Per ora le reazioni sono di routine, cadute dello 0,5% degli indici americani, come si è registrato ieri, ma non reazioni di panico o forte tensione. Più il tempo passa però e più si rischierà una brutta correzione: c'è chi dice a Washington che i politici avranno bisogno di una reazione shock per mettersi al lavoro davvero. E dunque non si può escludere una reazione forte visto che gli ammonimenti come quello di ieri di nuovo di Warren Buffett a non usare tecnicismi politici che possono avere «la conseguenza di una esplosione nucleare sui mercati» lasciano il tempo che trovano. Il terzo livello è internazionale, anzi globale:
ieri il vice ministro delle Finanze cinese Zhu Guangyao ha dato una lezione agli Stati Uniti: «Mettete ordine in casa vostra perché vogliamo che gli investimenti cinesi in titoli americani siano tutelati». La Cina è il più grande sottoscrittore di titoli del Tesoro americano.

Non solo, il mancato viaggio del presidente Obama in Asia ha lasciato spazio all'influenza di Pechino e il mancato appuntamento di ieri a Bruxelles (colpa dello shutdwon!) per negoziare un'area transatlantica di libero scambio ha deluso gli europei. Per questo molti commentatori, soprattutto in Europa, parlano di un forte declino della leadership americana. Parole dure, che guardano al breve termine senza tener conto che l'America ha già rimesso molto ordine in casa dal punto di vista economico finanziario e che l'attuale crisi è temporanea e come si diceva soprattutto politica.

Ricordate la "rupe fiscale"? Nel 2012 non si parlava d'altro, la "fiscal cliff" era la rupe da cui sarebbe precipitata l'economia americana che si trovava simultaneamente ad affrontare il pericolo di un forte aumento delle aliquote fiscali per tutti gli americani e il "sequester", cioè i tagli automatici di spesa.

Il compromesso fu raggiunto a tempo scaduto, il primo gennaio del 2013. In un giorno si fece tutto e il presidente firmò: aumenti fiscali solo per i più ricchi e un avvio dei tagli automatici con tre mesi di ritardo, a marzo, con l'idea di dare spazio a trattative che portarono a nulla.
La strategia di allora, come quella del 2011 è stata quella di "rimandare". Ieri, sembra, si propone di imboccare la stessa strada: "separiamo" e rimandiamo. Può andare. Almeno per il tetto avremo superato un altro "fiscal cliff". Fino alla prossima crisi.

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