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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2013 alle ore 06:44.

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BELGRADO. Dal nostro inviato
Da Belgrado l'Unione europea si vede sfuocata, sullo sfondo. «Abbiamo problemi più urgenti, primo fra tutti la ricostruzione dell'economia del Paese», taglia corto il ministro delle Finanze, Lazar Krstic. La Serbia non vuole fare la fine delle Grecia, e anche guardando alla vicina Croazia, appena entrata nella Ue, non intende accelerare un processo «inevitabile che non potrà concludere comunque prima di almeno cinque o sei anni, forse di più», dicono al governo. Magari per muoversi con maggiore libertà negli scambi commerciali con l'estero e per mantenere maggiore flessibilità all'interno.
All'inizio del prossimo anno verranno avviati i negoziati per l'adesione della Serbia all'Unione. A 14 anni dalla guerra - l'ultima nella violenta dissoluzione dell'ex Jugoslavia - l'accordo della Serbia con il Kosovo sulla normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi ha aperto a Belgrado la prospettiva dell'Europa. Ma non ha chiuso del tutto i conti con un passato ancora troppo vicino.
«Non serve a molto continuare a guardare al passato, non possiamo cambiare il passato. Dobbiamo guardare avanti e dobbiamo cercare di fare qualcosa per il futuro del nostro Paese», ripete il premier socialista Ivica Dacic, 47 anni, già delfino di Slobodan Milosevic, ora alla guida di un governo sostenuto anche dai conservatori del Partito progressista. Nella sua villa alla periferia di Belgrado, prima di cominciare a cantare in un karaoke d'altri tempi, Dacic parla di Kosovo, di economia, del gay pride annullato «per ragioni di pubblica sicurezza». Spiega che «il cambiamento è già iniziato».
La guerra e la successiva, difficile transizione politica - come afferma il Fondo monetario internazionale - hanno tuttavia «determinato per la Serbia un ritardo di dieci anni nelle riforme rispetto a molti Paesi dell'Europa centrale ed orientale». Il ministro Krstic ha appena messo a punto una legge finanziaria che dovrà «mettere ordine nel bilancio nazionale, ridurre il deficit e stabilizzare il debito entro il 2017». Ventinove anni, una laurea a Yale negli Stati Uniti e una carriera avviata alla McKinsey, Krstic ha accettato di entrare come tecnico nel nuovo governo nel quale si sono rafforzate le posizioni liberiste: «Ho obiettivi chiari e non ho niente da perdere, nessuno voto da conquistare», dice nel suo ufficio al ministero. «Se non faremo qualcosa - spiega - tra due anni saremo in bancarotta».
L'economia serba fino al 2008 cresceva in media del 4% all'anno, poi la crisi globale ha portato la recessione e ha ingigantito le difficoltà di un Paese arretrato e del tutto dipendente dalle sorti dell'economia europea. La Serbia conta 7,3 milioni di abitanti, ha un Pil di 28,7 miliardi di euro, pari a un decimo di quello della Grecia. Il tasso di disoccupazione è salito al 25% e lo stipendio netto medio supera di poco i 400 euro al mese.
Il budget appena approvato prevede di ridurre il deficit del Paese al 2% dall'attuale 7,5% del Pil, nei prossimi tre o quattro anni, e di tagliare la spesa pubblica di 1,5 miliardi di euro da qui al 2017 cercando di stabilizzare il debito pubblico, raddoppiato al 60% del Pil negli ultimi quattro anni. Il governo ha alzato l'aliquota Iva di base, ha tagliato del 20% gli stipendi nel settore pubblico, che conta circa 700mila dipendenti. Ha annunciato una stretta nell'economia sommersa che copre almeno un terzo del Pil e ha sospeso i sussidi alle imprese pubbliche improduttive, promettendo di completare, finalmente, la privatizzazione di 179 società che ancora sono «mantenute» dallo Stato.
«La Serbia ha grande potenzialità, penso all'automotive, al settore alimentare a quello dell'energia ma dobbiamo cancellare la corruzione e i sussidi di Stato a imprese che per anni hanno agito come Stati dentro lo Stato», dice il vicepremier Aleksandar Vucic, 43 anni, leader del Partito progressista, vero uomo forte del governo. E mentre Belgrado riprende a trattare un finanziamento con l'Fmi, riceve un prestito di oltre due miliardi di euro dagli Emirati Arabi e si appresta a negoziare l'ingresso nella Ue, Vucic chiede riforme a favore delle imprese e degli investimenti dall'estero perché gli aiuti da soli non bastano e «nessuno, nemmeno gli sceicchi del Medio Oriente, potranno salvare la Serbia se non creeremo un futuro sostenibile attraverso la crescita del settore privato».
«La Serbia vuole cambiare», afferma il premier Dacic. Al karaoke lo attende un repertorio che va dal turbofolk balcanico, all'opera italiana, fino alla russa Oci ciornie. «Ma - aggiunge - non abbiamo bisogno che siano altri a dirci come e cosa fare. La Serbia farà le riforme perché è quello che serve alla Serbia». L'Unione europea può aspettare.
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