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Questo articolo è stato pubblicato il 12 ottobre 2013 alle ore 09:25.

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Stato, privati e il progetto che manca

In un mondo sempre più occupato da città-fortezze che bruciano i ponti con l'esterno - come rappresentato nella copertina dell'ultimo Economist - non c'è da sorprendersi davanti all'ennesimo intervento pubblico per salvare una grande (ma forse sarebbe meglio dire media) azienda nazionale. E il premier Letta, in fondo, ha condotto in porto un'operazione con un obiettivo trasparente: mettere in sicurezza un'Alitalia che rischiava di non avere cassa neppure fino al termine della settimana e rafforzare l'azionariato italiano per poi gestire la trattativa con Air France da una posizione di minore debolezza.

Ragionevole. Ma sull'ennesimo salvataggio della compagnia di bandiera perplessità e interrogativi prevalgono sui buoni propositi. E sono interrogativi che vanno oltre l'ortodossia della teoria classica - che pure non bisognerebbe mai mettere nel cassetto dei ferri vecchi - sullo Stato che deve arbitrare e regolare, ma mai giocare direttamente la partita del mercato.

Cosa c'entra Poste con Alitalia? Qual è il piano industriale che è dietro l'operazione di salvataggio? Che segnali si danno al mercato con interventi in extremis quando manca ormai l'ossigeno vitale per garantire la continuità aziendale?
La situazione dell'ex compagnia di bandiera era nota da tempo. Era nota a chi si informava attraverso i giornali. Era tanto più nota, evidentemente, ai soci e al management che hanno portato avanti in questi cinque anni un piano industriale dagli esiti fallimentari. Bastava leggere i conti senza gli occhiali deformati dall'ottimismo della convenienza.

Eppure si è arrivati a poche ore dallo stop all'operatività della compagnia per correre ai ripari, rivolgendosi ancora una volta allo Stato. E i ripari, a quel punto, sono sempre nella logica del male minore (l'intervento dello Stato appunto) e mai dell'efficienza del mercato (che poi è efficienza per i contribuenti e per gli utenti/consumatori).
Ci sono responsabilità evidenti, di cui tutti dovrebbero con onestà farsi carico. Responsabilità di scelte politiche che risalgono alla campagna elettorale del 2008, quando Silvio Berlusconi puntò sull'azzardo della cordata italiana escludendo la soluzione francese che già allora appariva come la più ragionevole; e responsabilità dei soci privati, che hanno illuso e si sono illusi della sostenibilità di un progetto industriale che i numeri andavano negando giorno dopo giorno.

Si è arrivati così all'ennesimo intervento emergenziale, con il suo carico di anomalie e interrogativi. Fa bene ora Letta a pretendere discontinuità per un nuovo piano industriale che abbia potenzialità di successo. Ma il fatto stesso di pretenderlo a gran voce rivela come questo progetto industriale ancora non ci sia. E neppure è possibile intravederlo, se è vero - come è vero - che ancora non è chiaro a nessuno chi dovrà essere il (oppure «i», al plurale) partner industriale che dovrà garantire lo sviluppo di quel progetto.

L'ipotesi delle Ferrovie non è ancora sfumata, l'Air France resta il promesso sposo più accreditato e nel governo c'è ancora chi auspica un possibile futuro ingresso da parte di Cdp con il fondo strategico. In tutto questo non si capisce francamente cosa può e dovrà fare la nuova "nuova Alitalia" per assicurare che l'ennesima iniezione di capitale e la significativa quota pubblica non siano l'ennesimo tributo versato in un pozzo senza fondo solo per guadagnare ulteriore tempo. La "ragionevolezza" di Letta potrebbe non bastare.
twitter@fabrizioforquet

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