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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2013 alle ore 06:39.

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MILANO
«Come vuole che la veda, è un bel casino». Diego Rossetti, presidente dell'omonimo gruppo calzaturiero, 300 addetti e 60 milioni di ricavi, è appena uscito dalla riunione di budget per il 2014, dove l'impennata dell'euro rispetto al dollaro è stato uno dei temi in discussione. «Preoccupante – aggiunge l'imprenditore – perché in questo momento è difficile sia aumentare i listini in dollari che accettare una compressione dei nostri margini, già ridotti all'osso». È il dilemma di molti imprenditori italiani, alle prese ancora una volta con le incognite legate alla volatilità dei cambi e un dollaro sceso ai minimi da due anni. Non certo un toccasana per il nostro export, che nell'area extra-Ue sviluppa poco meno del 50% dei volumi globali e che vede Washington come primo partner al di fuori dell'Europa. Le ultime stime di Intesa Sanpaolo, a fronte di una rivalutazione del 10% dell'euro, ipotizzano una riduzione di oltre tre punti per le esportazioni nominali, con mancate commesse per più di 12 miliardi di euro. Sabbia negli ingranaggi in una fase già complessa, con le nostre vendite extra-Ue in crescita di appena due punti nei primi nove mesi dell'anno, in calo dell'1,4% negli Usa, area in cui competere ora diventa anche più difficile.
«Nei confronti dei produttori statunitensi è chiaro che questo significa perdere competitività – spiega l'ad di Same Deutz-Fahr Lodovico Bussolati, 1,2 miliardi di ricavi nei macchinari agricoli, per l'87% all'estero –, è una situazione che non fa bene alle imprese: si cerca di reagire tenendo il mercato, magari rinunciando a parte della marginalità». Politiche però non accessibili a tutti, soprattutto dopo la lunga crisi iniziata nel 2009. «Dovrei dire: margini, questi sconosciuti – sospira Laura Brandoni, imprenditrice piemontese del valvolame – più che altro si cerca di sopravvivere. La situazione dei cambi è strana perché gli Stati Uniti vanno meglio dell'Europa ma è la nostra valuta a rafforzarsi: direi che loro sono più capaci di noi di tutelare i propri interessi». «In effetti non si capisce – aggiunge Luciano Sanguineti, imprenditore lecchese nelle valvole petrolifere – l'Europa non va e la valuta sale: mi sembrano fenomeni speculativi».
I problemi maggiori sono ovviamente per chi ha una forte presenza sul mercato nordamericano, con costi in euro e ricavi in dollari. Scenario complesso, che costringe molte imprese a tutelarsi, con strategie spesso diverse. «Per noi Washington vale il 40% dei ricavi – spiega l'imprenditore dei macchinari per packaging Gian Mario Ronchi – e abbiamo deciso di attivare delle coperture per sterilizzare le oscillazioni di cambio. È un costo aggiuntivo, tuttavia necessario per evitare effetti negativi in bilancio». «I nostri listini verso gli Stati Uniti – spiega Vittorio Borelli, ad di Fincibec e presidente di Confindustria Ceramica – tenevano già conto di questa possibile corsa verso 1,40. Certo, se andiamo oltre questo livello saremo costretti a rivedere i prezzi, con la possibilità di essere danneggiati perché il rischio è finire fuori mercato». «Ho appena chiuso due contratti in Messico – racconta Marco Zanussi, imprenditore friuliano negli stampi – ma proprio per evitare problemi ho chiesto e ottenuto il pagamento in euro».
«Anche noi ci stiamo riflettendo – aggiunge Diego Rossetti – non voglio neanche pensare a cosa accadrebbe se andassimo verso quota 1,50: il livello sarebbe del tutto insostenibile».
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