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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2013 alle ore 08:20.

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ROMA
Ieri è stata la giornata della sedimentazione. Nessuna dichiarazione belligerante, nessuna minaccia di scissione, anzi tanti inviti all'unità del partito. Ma la cortina fumogena alzata all'indomani dell'Ufficio di presidenza non è sufficiente a nascondere la rottura palese all'interno del Pdl. E non servirà attendere l'8 dicembre, il Consiglio nazionale, l'assise convocata da Silvio Berlusconi per formalizzare la morte del Pdl e la rinascita di Fi.
La vera scadenza sarà il voto sulla decadenza del Cavaliere che dovrebbe arrivare nella seconda metà di novembre. E non è un caso che Gaetano Quagliariello, colui che in questi giorni più si è esposto assieme ad Angelino Alfano, ancora ieri sia tornato a ricordare che il punto dirimente è la tenuta del governo: «La giustizia e la difesa di Berlusconi non può essere scaricata sul Paese», ha detto il ministro per le Riforme sottolineando la contraddizione presente nel documento approvato dall'ufficio di presidenza che da un lato ribadisce il sostegno a Letta e però contemporaneamente definisce «dirimente» la questione giustizia.
Ma è una contraddizione voluta. La data dell'8 dicembre non è stata scelta dall'ex premier solo per coprire mediaticamente il probabile trionfo di Matteo Renzi alla guida del Pd. Sarà assai difficile per i governativi garantire la tenuta del loro esercito quando un Berlusconi da pochi giorni cacciato dal Parlamento pronuncerà il suo j'accuse chiedendo ai suoi di sostenerlo con un voto, quello sì, palese.
È questo il canovaccio che il Cavaliere ha imbastito e sul quale si muoverà nelle prossime settimane, rincuorato anche dai sondaggi che darebbero un eventuale partito di Alfano sotto il 4%: «Non entrano neppure in Europa!», è lo spauracchio che viene lasciato trapelare. Ma i sondaggi valgono ben poco quando le elezioni non sono alle porte e questo Berlusconi è il primo a saperlo. Alfano invece continua a pensare di poter evitare il definitivo redde rationem. Ma Berlusconi l'unica opzione che è pronto ad accettare è la resa. Anche l'ipotesi di una separazione consensuale al momento è messa da parte.
Il resto è contorno. Lo statuto, le deleghe, segretario sì-segretario no: per il Cavaliere questo è il «teatrino». Nel quale però c'è chi si sta dando parecchio da fare. Ieri l'assemblea dei campani, guidati dal falco Francesco Nitto Palma, si è schierata a sostegno del documento approvato dall'ufficio di Presidenza. In Calabria invece il presidente Scopelliti si sta muovendo per Alfano e per contrastare il berlusconiano Giuseppe Galati. In Piemonte (dove impera il berlusconiano Osvaldo Napoli) Manuela Repetti (compagna di Sandro Bondi) attacca frontalmente gli alfaniani della regione, a partire da Enrico Costa. Anche Edmondo Berselli, coordinatore dell'Emilia Romagna si schiera apertamente con il segretario e conferma che è partita la rincorsa delle firme. In Sicilia, roccaforte di Alfano e Schifani, Gianfranco Miccichè, rimasto a strettissimo contatto con Berlusconi, sta lavorando per portare il suo contributo. Nel Lazio a muoversi per i governativi è Andrea Augello. In Lombardia la lealista Gelmini deve vedersela contro i ciellini di Lupi e Formigoni, sostenuti anche dall'ex Pdl oggi ministro della Difesa Mario Mauro.
La ragione di tanto lavorio è nella maggioranza qualificata, i 2/3 appunto, necessaria secondo lo statuto per decidere il passaggio a Fi. Ecco perché si continua a parlare di 600 firme (in realtà i componenti sono un po' più di 800). Determinanti saranno i cosiddetti pontieri. A partire dagli ex An Gasparri e Matteoli. Ma anche quei parlamentari e amministratori locali che finora non si sono voluti esporre in prima linea e attendono di capire prima l'evoluzione del primo tempo della partita.
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