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Questo articolo è stato pubblicato il 30 ottobre 2013 alle ore 08:27.

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«Ideatore, organizzatore del sistema e fruitore dei vantaggi relativi». Per i giudici della Corte d'Appello di Milano non ci sono dubbi che Silvio Berlusconi abbia messo in piedi una «complessa attività finalizzata a realizzare un'imponente evasione fiscale» sui diritti tv di Mediaset. Nelle motivazioni della sentenza con la quale il 19 ottobre scorso lo hanno condannato all'interdizione dai pubblici uffici per due anni, i giudici usano parole ferme nei confronti del leader del Pdl.

Del resto ci sono già due sentenze di merito e una di legittimità che hanno stabilito in via definitiva la colpevolezza dell'ex premier condannandolo a quattro anni di reclusione (di cui tre coperti da indulto) per frode fiscale.
«Un accanimento giudiziario incomprensibile e immeritato» ha commentato Berlusconi le motivazioni sull'interdizione. Ma delle nove pagine che i giudici impiegano per spiegare perché Berlusconi meriti di perdere i diritti politici, sono 40 righe a metà del testo a far esplodere le polemiche, poche ore prima che a Roma la Giunta per il regolamento del Senato decida sulle modalità di voto per la decadenza di Berlusconi. Le righe che spingono gli esponenti del Pdl ad affermare che anche la Corte d'Appello di Milano sostiene la non retroattività della legge Severino sono quelle nelle quali i giudici spiegano perché hanno respinto la questione di costituzionalità sollevata dal legale dell'ex premier, Niccolò Ghedini, durante l'udienza del 19 ottobre. Per la corte «la condanna penale è presa in considerazione come presupposto per la incandidabilità» o per la «decadenza dal mandato elettorale» previste dalla legge Severino. Per i giudici, inoltre, le pene accessorie sono una cosa, la legge Severino un'altra: si tratta di ambiti di applicazione ben distinti. E infine – scrivono nella motivazione –, l'autorità competente a decidere sull'incandidabilità è l'autorità amministrativa e non quella giudiziaria, cioè l'Ufficio elettorale regionale o la Camera di appartenenza «in caso di condanna intervenuta nel corso di mandato elettivo». È quanto basta per dar fuoco alle polveri.

Nel merito del processo, i giudici parlano di una «particolare intensità del dolo» di Berlusconi, aggravata dalla sua funzione politica: «Il ruolo pubblicamente assunto dall'imputato, non più e non solo come uno dei principali imprenditori incidenti sull'economia italiana, ma anche e soprattutto come uomo politico, aggrava la valutazione della sua condotta», motiva la corte.
Non solo. «L'oggettiva gravità del fatto deriva dalla complessità del sistema creato anche per poter più facilmente occultare l'evasione, sistema operante in territorio mondiale, attraverso numerosi soggetti, società fittizie di proprietà di Berlusconi o di fatto facenti capo a Fininvest, e attraverso un meccanismo di contrattazione secretata (creazione di contratti "master" e subcontratti); dalla durata del protrarsi dell'illecito sistema, ideato a partire dalla metà degli anni 80... ; dalla gravità del danno provocato all'Erario e quindi allo Stato, danno che solo per i due anni sopravvissuti alla prescrizione ammonta a 7 milioni e 300.000 euro». Inoltre non c'è «prova alcuna» che Berlusconi abbia estinto il suo «debito tributario» ma si è limitato a formulare «una mera proposta di adesione alla conciliazione extra giudiziale».

I giudici confermano poi le sentenze di primo, di secondo grado e della Corte di Cassazione e affermano che «sotto il profilo soggettivo va valutato che gli accertamenti contenuti nella sentenza della Corte d'Appello, divenuta definitiva ad eccezione del capo qui esaminato, dimostrano la particolare intensità del dolo dell'imputato nella commissione del reato contestato e perseveranza in esso. In particolare la sentenza ha definitivamente accertato che Berlusconi è stato l'ideatore ed organizzatore negli anni 80 della galassia di società estere, alcune delle quali occulte, collettrici di fondi neri... Lo stesso Berlusconi ha continuato ad avvantaggiarsi del medesimo meccanismo anche dopo la quotazione in borsa di Mediaset nel 1994». La difesa dell'ex premier, adesso, ha tempo fino al 3 dicembre per ricorrere in Cassazione.

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