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Questo articolo è stato pubblicato il 03 novembre 2013 alle ore 08:26.

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BOLOGNA. Dal nostro inviato
Ne scrisse nel 2004 il giornalista scrittore Edmondo Berselli nel libro "Quel gran pezzo dell'Emilia". Ne hanno fatto oggetto di studi Romano Prodi, i suoi riceratori e gli economisti de Il Mulino. Il soggetto è il modello di sviluppo dell'Emilia-Romagna, un sistema economico a solida base manifatturiera, strettamente intrecciato con società e territorio, imbevuto di cultura del fare. Ma i modelli non sono per sempre, soprattutto quando si affronta la più tremenda recessione della storia del Paese. Ed ecco che il modello è tornato sotto la lente degli economisti. In particolare di Franco Mosconi, professore di Economia industriale dell'Università di Parma, che nel 2012 ha raccolto nel libro "La metamorfosi del modello emiliano", i risultati di un lungo e vasto programma di ricerca sul manifatturierio regionale.
Professor Mosconi, la definizione di modello emiliano romagnolo.
Parlerei di sistema economico fondato sulla pluralità di piccole imprese, spesso organizzate in distretti, a forte coesione. Un sistema a cui negli anni l'amministrazione ha fornito infrastrutture, aree dedicate di territorio, welfare, un livello accettabile di burocrazia. E dove le università hanno contribuito in modo importante all'innovazione, così come le banche locali.
E oggi questa formula si adatta ancora?
Direi di no. Nel senso che rispetto al modello centrato su distretti e Pmi tra loro collegati, oggi la metamorfosi la vediamo in chi fa che cosa, in che cosa si produce e in dove si vende.
Chi fa che cosa: le aziende non sono più quelle di prima?
C'è una nuova élite di imprese, frutto del consolidamento e della crescita dei leader di distretto. E spesso nei distretti emiliano-romagnoli ci sono più di una impresa leader. Inoltre, ora abbiamo una decisa rappresentanza di medie imprese, quelle del quarto capitalismo, ben strutturate e capitalizzate, con un elevato grado di internazionalizzazione. Queste imprese, dentro e fuori i distretti, hanno costruito marchi, hanno fatto ricerca, innovazione, migliorato qualità, prodotti e processi. Su questa strada sono quindi nati i gruppi industriali, cresciuti per linee interne e con acquisizioni.
Questo avrà influito sul secondo fattore: che cosa si produce.
Certamente. Nel sistema regionale siamo molto forti nelle innovazioni incrementali, partendo da basi dove eravamo già forti se non leader di nicchia. Un esempio: a Sassuolo, dalla primordiale piastrella siamo passati a produrre materiali con elevate prestazioni tecniche, resistenza e design. In conseguenza di questo processo, i settori a monte e a valle hanno compiuto salti evolutivi e tecnologici importanti. Pensiamo alle macchine per l'industria ceramica, a chi produce collanti, cementi e materiali per l'edilzia. Lo stesso ragionamento vale per l'abbigliamento, l'agroalimentare, il pharma, la meccanica. Oggi molti campioni regionali del manifatturiero producono e vendono cose che vent'anni fa non producevano, mantenendo però una forte specializzazione.
L'ultimo punto della metamorfosi: dove si vende.
Credo sia anche il punto che non è stato realizzato del tutto. Il mercato non è più solo Italia o Europa, ma è il mondo. Questa è una delle sfide più importanti perchè è connessa alla crescita dimensionale. Internazionalizzazione non significa capacità di export e non vuol dire delocalizzazione. Significa pensare in una ottica di mercati mondiali. Gli investimenti diretti in uscita dall'Emilia-Romagna sono consistenti rispetto alla media italiana. Ma non possiamo fermarci qui.
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