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Questo articolo è stato pubblicato il 03 novembre 2013 alle ore 08:40.

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Devo confessare che, da quando Pippo Delbono scende in platea per farmi delle carezzine sulla testa, mi riesce meno facile parlare male dei suoi spettacoli. Va anche detto che credo di cogliere sempre più una certa tortuosa coerenza del suo percorso, e ne condivido in sostanza l'obiettivo di fondo, che è la drastica rinuncia agli apparati della rappresentazione, il tentativo di approdare a un nucleo di realtà più disadorna e immediata.
Qui, a un certo punto, questi propositi li fa esporre esplicitamente a una delle attrici: «avrete capito – dichiara lei – che il nostro regista non ama più il teatro, non riesce più ad accettare un tipo di lavoro per cui gli attori devono fingere di essere qualcun altro. Lui la finzione la vuole scavalcare, per cercare di arrivare alla verità». Il problema è però capire se quella espressa da Delbono sia in effetti una verità in qualche modo più vera delle finte verità espresse dal teatro tradizionale.
Prendiamo, ad esempio, l'inizio, che è per certi versi illuminante: una voce, la sua, invita – come accade all'inizio di qualunque spettacolo – a controllare che i telefoni siano spenti, e augura buon divertimento. Poi la voce, nel buio, riprende a parlare: «ma vi sembra un annuncio normale? Cosa vuol dire buon divertimento? Siete qui per divertirvi? Dobbiamo servire i pasticcini in sala?». Questa apparente riflessione a ruota libera, che di fatto è anche il manifesto di intenti di un teatro che graffia e fa male, sembra il massimo della verità, ma è al tempo stesso il massimo dell'artificio.
L'intero spettacolo, visto al Teatro Strehler di Milano, corre sull'ambiguo confine tra vero e finto, tra una bellezza perduta, irraggiungibile e il degrado che ci circonda: Delbono, che fa ampio ricorso a proiezioni di filmati, gioca sul contrasto fra algidi manichini e corpi sventrati, fra il gelo di «un mondo di plastica che ti ucciderà» e la nostalgia di una condizione più umana, magari in un'Africa derelitta ma solidale. L'oggettività delle immagini, tuttavia, prende senso da un montaggio di per sé emotivo, tendenzioso, dunque altamente soggettivo.
Per certi versi Orchidee si potrebbe leggere come uno sforzo di strappare tre grandi classici del teatro al loro contesto, per farne taglienti schegge di vita: scanditi al microfono da Delbono con la sua dizione sporca, ansimante, sussurrati, urlati, graffiati a sangue, i brani di Romeo e Giulietta e del Giardino dei ciliegi e l'«essere o non essere» di un Amleto in rivolta contro lo squallore quotidiano diventano riflessi di un'angoscia personale, parlano per un attimo al nostro oggi devastato.
Su questa scarna ossatura, però, si deposita una stratificazione dei materiali più svariati, stralunati pezzi di danza, poesie d'amore francesi, le canzoni di Enzo Avitabile, i ricordi privati di Pippo e persino le riprese, fin troppo volutamente strazianti, della madre morente, da lui già usate nel film Sangue. Come spesso accade, ci mette tanto, anche ciò che non serve, e questo eccesso assume a tratti un inevitabile risvolto retorico.
Nell'insieme, Orchidee ha un che di normale nella sua sostanziale anomalia: ci sono scene di toccante intensità, come quella che fa da sfondo al Giardino dei ciliegi, col video degli alberi in fiore sotto la neve. Ci sono trovate divertenti, come quella dell'attrice che cerca di vendere i finti Monet della nonna. E ce ne sono altre superflue, ripetitive. Si sa che nessuno sa esprimere, quanto Delbono, il dolore allo stato puro. E che nessuno è così inadatto a dargli una qualunque forma drammaturgica.
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Orchidee, di Pippo Delbono. Dal 21 al 24 novembre all'Arena del Sole di Bologna.

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