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Questo articolo è stato pubblicato il 05 novembre 2013 alle ore 06:38.

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Fabio
Pavesi Sarà davvero un'Unione bancaria in cui gli istituti europei (tutti) giocheranno con le stesse regole o si rischia ancora una volta la deriva protezionistica, dove cioè ogni Paese cercherà di trarne vantaggio, ovviamente a scapito degli altri? La domanda non è peregrina e assilla da tempo banchieri e autorità, dato che finora, dall'inizio della crisi, il campo di gioco non è stato lo stesso per tutti. Con uno svantaggio indiscutibile per le banche commerciali, cioè quelle che erogano credito all'economia reale, del Sud Europa e parallelamente con l'intangibilità delle grandi banche d'affari di stampo anglosassone del Nord Europa. Se davvero si vuole garantire reale solvibilità del sistema bancario non basta decidere che chi, come le italiane o le spagnole, hanno molti crediti malati sono da considerarsi più traballanti di chi, come le grandi banche del Nord, sono piene di titoli derivati e/o di asset cosiddetti tossici tenuti dormienti nei bilanci. Finora è andata così. Non che il rischio credito non sia un pericolo, ma certo anche avere quantità industriali di derivati o di titoli illiquidi («tossici») è una mina inesplosa. Qualche esempio? Come più volte sottolineato da questo giornale, un colosso come Deutsche Bank detiene tuttora 38 miliardi di euro di titoli illiquidi. Una cifra che equivale al 94% del patrimonio netto tangibile dell'istituto. E la francese Bnp ne detiene per 27 miliardi (cioè un terzo dell'intero capitale). Immaginate cosa potrebbe accadere a livello di capitale se domani, nel caso di Deutsche Bank, si scoprisse che metà di quel portafoglio di titoli tossici vale zero. Sarebbe un disastro. La banca andrebbe a gambe all'aria. Stesso discorso per i derivati. Anche qui le banche tedesche e francesi fanno il pieno con disinvoltura da anni. Il 38,6% dell'attivo di Deutsche Bank è per esempio costituito da derivati. E il 99% di questi strumenti ha natura speculativa. I derivati ammontano invece al 25% del totale attivi di Credit Agricole e al 22,3% in Bnp Paribas. Idem per la leva finanziaria (cioè il rapporto tra il totale attivi e il patrimonio netto), che la Bce terrà in considerazione per valutare la rischiosità delle singole banche. Anche qui le vulnerabilità maggiori sono in Germania (la solita Deutsche Bank in prima fila) e in Francia (Credit Agricole soprattutto). Alla fine ciò che conta di più nello stabilire il grado di rischio implicito di una banca è il suo rapporto di indebitamento sul capitale, cioè la famosa leva finanziaria che da sempre è eccessivamente alta tra le grandi banche del Nord Europa. Se governi un istituto come appunto Deutsche Bank che vanta oltre 2mila miliardi di attivo totale e hai un capitale netto tangibile (dati R&S Mediobanca fine 2012) di poco più di 40 miliardi, basta un nonnulla, una svalutazione dell'1% dell'attivo per mangiarsi metà del capitale. Stesso discorso vale per il Credit Agricole. La banca francese aveva a fine 2012 capitale tangibile per 29 miliardi su un bilancio di 1.842 miliardi. Come dire: di mio (gli azionisti) nella banca ci metto solo l'1,5% del capitale.Per il resto vado a debito. Si chiama leva. Può sollevare il mondo ma anche inabissarlo.
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