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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2013 alle ore 06:41.

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La regola è sempre la stessa. Quando si parla di prezzi, in rialzo o in calo, occorre guardare lontano. Perché quando le tendenze si manifestano, è troppo tardi.
L'inflazione di Eurolandia di ottobre, allo 0,7%, può allora essere messa un po' tra parentesi. Se c'è un rischio deflazione – ed esiste, anche se non è alto – non è quello "il" segnale d'allarme. Il dato ha sorpreso tutti, ma molti fattori statistici disturbano in questa fase l'andamento dell'indice. Quel che occorre valutare sono invece le aspettative. Conta più quanto i lavoratori e le imprese pensano possa essere l'inflazione tra uno-due anni che il caro vita attuale: sono le attese del futuro che guidano le decisioni di oggi su salari e prezzi.
Per la Bce le aspettative sono «ben ancorate», ma è difficile che una banca centrale possa dire altrimenti: significherebbe riconoscere un fallimento. Qualcosa in realtà si sta già muovendo, nelle attese. «Le misure sulle aspettative di inflazione hanno iniziato a puntare verso il basso», spiega il team di Laurence Boone alla Bank of America Merrill Lynch. È la stessa opinione di Thomas Hayes di Barclays che guarda al lungo periodo e sottolinea però come il fenomeno non sia così drammatico come il dato di ottobre lascerebbe pensare.
La Bce, quindi, non sarebbe in ritardo rispetto agli eventi. Fa bene però a restare vigile. Se si guarda infatti ai singoli paesi, sorprenderà un po' vedere non solo l'inflazione italiana allo 0,7%, registrata in un mese in cui è aumentata l'Iva, ma anche lo 0,1% della Spagna, e a settembre il -1% della Grecia, lo 0,3% del Portogallo e lo zero dell'Irlanda, dopo 22 mesi di prezzi in calo.
Non si tratta semplicemente della crisi che morde con intensità differente i diversi paesi. È l'equivalente della svalutazione (non a caso definita svalutazione interna). Un tempo la peseta, la dracma, la lira avrebbero perso terreno. Oggi, con la moneta comune, e quindi i cambi fissi, si raffreddano, relativamente a quelli dei partner, i prezzi e i salari.
Per gli economisti, e presumibilmente per la Bce, è un fenomeno persino positivo: è una forma di riequilibrio tra le economie di Eurolandia, considerata necessaria anche se molto dolorosa per tutti: anche per le imprese, che spesso vedono ridursi i margini.
Il problema è che le cose possono sfuggire di mano. «Pensiamo – spiega Boone – che la Bce possa iniziare a preoccuparsi se le flessioni di prezzi e salari cominciassero a estendersi dalla periferia ai paesi core di Eurolandia». Non è detto infatti che i paesi più solidi, e soprattutto la Germania così orientata alle esportazioni, possano davvero reggere a questa pressione competitiva. Anche perché l'euro non aiuta, fuori Eurolandia: è a un livello più elevato della media di lungo periodo.
Non è, questo, uno scenario estremo: François Cabau di Barclays considera probabili ulteriori flessioni di un'inflazione altrimenti destinata a stabilizzarsi proprio per l'incapacità dei paesi core di assorbire tutte le pressioni provenienti dai partner.
È invece difficile che scatti davvero una spirale deflazionistica, una rincorsa dei prezzi verso il basso sia all'interno delle singole economie (se prevedo un costo della vita inferiore in futuro, aspetto a fare investimenti e acquisti importanti, come già accade in Grecia) sia tra i diversi paesi (se prevedo prezzi più competitivi dei concorrenti esteri, abbasso anche i miei).
Non è comunque un fenomeno impossibile. Partendo anzi da un'impostazione monetarista (rivista e aggiornata) e guardando alla quantità di denaro in circolazione, troppo lenta, Lars Christensen di Den Danske Bank non ha dubbi: «Eurolandia – dice – va verso la deflazione». Proprio come accadde, per anni, al Giappone.
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