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Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2013 alle ore 08:50.

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Sono passati più di cinquant'anni – una vita – dall'ultima rappresentazione italiana de I pilastri della società. La messinscena del dramma ibseniano che Gabriele Lavia ha presentato al Teatro della Pergola di Firenze offre dunque l'occasione per una sorta di riscoperta quasi ex-novo di questo testo vigoroso, che costituisce una delle più lucide e potenti raffigurazioni dei rapporti tra politica, affari e ipocrisia bigotta, e segna un preludio, un passaggio alle opere più mature, alternando nobili retaggi ottocenteschi a lampi di abbacinante modernità.
Modernissimi, e densi di interrogativi attuali, sono ad esempio i costanti richiami al ruolo della "società", quell'anteporre continuamente l'evoluzione della società rispetto all'etica individuale. Sono moderne le inquietudini di Lona, partita per l'America per sfuggire al clima soffocante della sua cittadina, o della giovane Dina che, chiesta in moglie, risponde al futuro marito, anticipando la Nora di Casa di bambola: «Ma prima voglio lavorare. Perché solo lavorando diventerò uguale a voi». Questo tema cruciale dell'emancipazione femminile resta però sullo sfondo. Al centro c'è invece un tipico maschio ibseniano, il console Bernick, un imprenditore-avventuriero che prefigura John Gabriel Borkman: come Borkman, sogna di strappare alla terra le sue ricchezze minerarie, di usare fiumi e cascate per «produrre energia e muovere le nuove macchine». Come Borkman, è diviso tra due sorelle, una amata – Lona, appunto – l'altra sposata per i soldi. A lui si offre tuttavia uno spiraglio di riscatto che a Borkman non sarà concesso.
Bernick, che per conquistare il potere non ha esitato di fronte a nulla, la frode, l'inganno, deve la sua ascesa alla fama di intransigente moralista. Ma questa fama poggia su una menzogna: anni prima aveva avuto una tresca con un'attrice, che un altro, il cognato Johan, poi fuggito oltreoceano, si era attribuito per salvarlo dallo scandalo. Ora, tornato Johan, il passato rischia di riemergere, e Bernick sceglie di liberarsene confessando la verità.
Sull'esito di questa assunzione di colpa, Ibsen non si pronuncia: mostra l'uomo che grazie a essa scioglie i propri nodi personali e famigliari, mentre sul suo impatto per così dire pubblico possiamo solo intuirne una sorta di ambiguo ottimismo. La regia di Lavia sembra invece propendere per l'ipotesi contraria: nel finale, tagliate le battute sulla ritrovata armonia, lascia Bernick seduto fuori dalla scena, come escluso dalla vita, mentre tutti gli altri sono raccolti in casa a intonare inni sacri, sancendo così – se ho capito bene – la sconfitta della verità e il trionfo dei baciapile.
Per il resto, il suo è uno spettacolo in qualche modo d'altri tempi, molto tradizionale, molto dichiaratamente "teatrale" nelle sue tre ore di durata, con l'imponente impianto scenografico di Alessandro Camera, i costumi di Andrea Viotti, le caratterizzazioni, i canti dei marinai che risuonano da lontano. Ci sono invenzioni efficaci, come i suggestivi movimenti scenici di quella sorta di coro di donne, e ci sono effetti francamente piuttosto scontati, come le inutili entrate degli attori dalla sala.
Il vero problema di questo testo sono però i toni ironici, satirici che si intrecciano strettamente a quelli drammatici, rendendo difficile l'equilibrio degli uni con gli altri. Lavia trova naturalmente una giusta misura fra gli aspetti cinici, banditeschi di Bernick e l'innegabile grandiosità della sua visione. Ma la Lona di Federica di Martino, che indossa il cappello da cow-boy e canta My darling Clementine, si espone al rischio della caricatura. È più credibile l'orgoglio ferito di Johan Tønnesen, interpretato da Graziano Piazza. E tutti gli altri fanno la loro parte, componendo un variegato affresco collettivo.
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I pilastri della società, di Henrik Ibsen, regia di Gabriele Lavia, Firenze, Teatro della Pergola, fino al 15 novembre

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