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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2013 alle ore 09:24.

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I fruitori di tv, radio e giornali potrebbero pensare che, in Italia, le indagini penali siano fatte ormai solo "al telefono": non v'è giorno, infatti, in cui non si abbia notizia di qualcosa che è stato scoperto solo perché detto nel corso di una telefonata ascoltata da terzi e poi diffusa.
Il Codice di procedura penale, in realtà, è abbastanza restrittivo e disciplina non solo i presupposti per la captazione di conversazioni riservate, ma anche le modalità di effettuazione, di documentazione e di utilizzazione dentro e fuori il processo.
Innanzitutto, le intercettazioni possono essere effettuate tendenzialmente solo per i reati più gravi ed è comunque necessario un provvedimento del giudice, chiamato a verificare che la fattispecie contestata le consenta, che vi siano gravi indizi di reato e, soprattutto, che la prova sia «assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini». Nei casi di urgenza, il Pm può disporre direttamente le intercettazioni, fatta salva la successiva verifica – entro 48 ore – dei suoi presupposti da parte del Gip e l'eventuale inutilizzabilità, in caso di mancata convalida. Si prevede anche che le operazioni possano durare 15 giorni. Di fatto, però, si prolungano di molto quando – e accade spesso – il giudice autorizza la proroga.
Le comunicazioni intercettate sono registrate in maniera integrale, ma la legge prevede anche una sintesi in appositi verbali. E sono proprio questi "brogliacci" – spesso assai criptici, per le difficoltà di comprensione "in diretta" del linguaggio parlato – a costituire la prima forma di documentazione e di conoscenza. Accade sovente, infatti, che venga omessa o fortemente ritardata la fase di analisi e scrematura del materiale raccolto, con separazione di ciò che è utile a fini probatori da quello che, al contrario, è «manifestamente irrilevante». Questo meccanismo dovrebbe essere un'importante garanzia per chi è sottoposto a indagini, ma soprattutto per tutti coloro che, non indagati, vengono intercettati o direttamente o indirettamente, perché – magari per ragioni di lavoro o sentimentali – sono venuti in contatto con le persone intercettate. Ed è proprio qui che si colloca uno dei momenti più critici della disciplina. Da un lato, infatti, non esiste un termine rigoroso per porre mano alla verifica del materiale captato; e dall'altro brogliacci e registrazioni possono venire nelle mani delle parti – e quindi del pubblico – prima che vengano escluse le conversazioni «manifestamente irrilevanti». È quel che accade quando viene applicata una misura cautelare o vengono concluse le indagini: situazioni in cui gli atti, non "depurati" preventivamente, vengono portati a conoscenza dell'indagato.
In questi casi, le intercettazioni cessano di essere segrete e il loro contenuto può essere pubblicato. Dunque, poiché le intercettazioni, a differenza degli altri mezzi di ricerca della prova, catturano materiale senza selezionarlo, sarebbe opportuno che perdessero la segretezza solo dopo la "scrematura" in contraddittorio. Non a caso, una delle modifiche più invocate della disciplina va proprio in questo senso. E ciò in quanto, sebbene la diffusione debba rispettare le regole sulla privacy – secondo la quale, tra l'altro, si possono divulgare solo i dati indispensabili per comprendere una notizia di interesse pubblico – è anche vero che, una volta tolto il vincolo del segreto, l'auto-limitazione del giornalista non sembra sempre bastare.
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