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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2013 alle ore 06:47.

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MILANO
Le fiere sono davvero utili all'export? Per il 92% delle aziende che hanno risposto all'ultimo sondaggio Ispo sul tema sì. Per il 28% «molto» e per il 62% «abbastanza». Fashion, food e meccanica – che hanno contribuito in maniera decisiva, dopo 10 anni, ad archiviare il 2012 con un record positivo sulla bilancia commerciale per 8,86 miliardi di euro – credono nelle fiere. Non negli "affittaspazi", ma nelle manifestazioni ad hoc organizzate all'estero per i loro settori o per filiere, concepite come "piattaforme" di servizi pre e post-evento, capaci di coordinare B2B, incontri profilati tra aziende e potenziali buyers, mantenere contatti attraverso il marketing sui social media. Una fiducia che l'industria fieristica ricambia prospettando – secondo l'ultimo sondaggio del Global Barometer di Ufi (l'associazione mondiale degli organizzatori) – un aumento del fatturato, per la prima volta dal 2008, per 3 aziende su 4, già nella prima metà del 2014.
Dall'incontro tra eccellenze del "made in Italy" e mondo fieristico, rappresentato ieri a Milano da Messe Franfurt Italia (l'Ente fiera di Francoforte che ha compiuto 15 anni di presenza a Milano) è giunta una riflessione tra operatori e aziende italiane che spinte dal crollo della domanda interna, hanno rafforzato o reinventato la propria politica commerciale all'estero.
«Il made in Germany non può esistere senza il made in Italy – ha ricordato ieri Detlef Braun, membro del board di Messe Frankfurt GmbH – ricordando che oltre il 40% della componentistica dell'automotive tedesca proviene da filiere di fornitori italiani». «Paesi manifatturieri forti come Italia e Germania – ha aggiunto l'ad di Messe Frankfurt Italia, Donald Wich – devono quindi "usare" le fiere come partner delle aziende».
Mentre nel 2012 gli spazi espositivi netti in Italia si sono ridotti del 4%, dal 2006 il numero di aree fieristiche è cresciuto nel mondo del 57 per cento. Per oltre la metà si tratta di nuove costruzioni nei Paesi emergenti. Cina, Brasile, India, soprattutto, che diventano però "vetrine" per i Paesi limitrofi.
«È impensabile andare a vendere in Cina o altri Paesi con gli stessi schemi tradizionali di 50 anni fa e forti di una tradizione imprenditoriale familiare che non dice nulla dall'altra parte del mondo» ha detto Andrea Parodi, presidente di TexClubTec (l'associazione degli operatori del tessile tecnico).
«Negli ultimi 5 anni – ha spiegato Sandro Bonomi, presidente di Anima – le esportazioni di meccanica verso i "classici" Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) sono cresciute del 18,4% e valgono 1,3 miliardi di euro nei primi 6 mesi del 2013. Ma nello stesso periodo l'export di meccanica verso Messico, Indonesia, Korea e Turchia è cresciuto del 135% e valgono 822milioni di euro nel primo semestre di quest'anno. Mentre i Paesi per noi davvero "vincenti" restano Russia, Australia, Turchia, Arabia Saudita e Cina, che messi assieme si sono tradoto in questo primo semestre in oltre 2,1 miliardi di euro di export».
«Nel 2012 – ha spiegato Sandro Salmoiraghi, past president di Acimit – la produzione italiana di macchine tessili si è attestata sui 2,4 miliardi di euro, con una flessione dell'11% sull'anno precedente. Ma dell'83% di produzione destinata ai mercati esteri, il 39% fa rotta su Cina, Turchia e India. Siamo tallonati dalla Cina che sta diventando a sua volta produttrice di macchinari. Ma noi puntiamo sulla sostenibilità e sul rispario energetico». Attenzione però all'impoverimento della domanda interna, ha ammonito Giuliano Busetto, presidente di Anie Automazione: «Sebbene nel settore automazione l'export raggiunga il 60% della produzione senza sostenere l'industria di processo in Italia si rischia solo di diventare fornitori per gli altri Paesi. Va bene premere sull'export, ma alla lunga, senza un mercato interno e un indotto che funziona si perde terreno anche nelle catene del valore in ternazionali».
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