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Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2013 alle ore 17:10.
L'ultima modifica è del 18 novembre 2013 alle ore 10:50.

Dipende tutto da Carlo Cottarelli. A nuovo commissario per la spending review sono affidate le chance di evitare che la prima "bocciatura" dell'Europa sulla legge di stabilità si trasformi in un giudizio definitivo; a lui spetta il compito di per ridurre il debito come chiede Bruxelles; a lui, concretamente, tocca trovare il modo per consentire all'Italia di sfruttare lo spazio aggiuntivo sugli investimenti (almeno tre miliardi) che dipendono dal «sì» della Ue. A Cottarelli, in sintesi, si chiede di riuscire da subito dove tanti hanno fallito.
Quella dei tentativi di spending review all'italiana è infatti una storia lunghissima, che scrive il suo primo capitolo nel 1971, 42 anni fa. Mentre Nixon archivia Bretton Woods cancellando la convertibilità del dollaro in oro, e in Germania Est sale al potere il secondo segretario generale della Sed, Erich Honecker, la politica italiana è concentrata nelle trattative per trovare un successore di Giuseppe Saragat al Quirinale. Non tutti, però, sono impegnati nella partita a schacchi che porterà Giovanni Leone alla presidenza: nel Governo guidato da Emilio Colombo sedeva al ministero del Tesoro Mario Ferrari Agradi, partigiano, economista Dc e autore del primo "Libro bianco" per la riforma di una spesa pubblica italiana giudicata fuori controllo. I dati degli anni successivi, con il debito pubblico cresciuto in un ventennio dal 40% al 110% del Pil, spiega tutto dei risultati concreti di quell'analisi
Ma anche senza andare così indietro, e senza sfogliare l'intera biblioteca di Libri «bianchi» (Gilberto Muraro, 2006) o «verdi» (Tommaso Padoa-Schioppa, 2007) sulla spesa pubblica, il panorama dei tentativi anche recentissimi di calmare il motore in perenne fuorigiri delle uscite pubbliche italiane è ricchissimo di analisi, progetti e presentazioni solenni, ma povero di risultati.
L'albero storto
Nel giugno del 2010 è la volta di Giulio Tremonti: nella sua relazione alle Camere presenta la finanza pubblica italiana come un «albero storto», cresciuto male per l'irresponsabilità dello Stato che si finanzia con il debito pubblico e dei governi locali che spendono ma ricevono i fondi principalmente dai trasferimenti statali. La ricetta per raddrizzarlo è individuata nel federalismo fiscale, che nei mesi successivi conosce però un'attuazione fervida sul versante delle tasse (Imu, aumenti delle addizionali Irpef regionali e così via) e un sostanziale stallo su quello delle uscite: i fabbisogni standard, che dovrebbero misurare il "prezzo giusto" dei servizi comunali per garantire il finanziamento solo entro certi livelli, si è persa per strada, e lo stesso è successo ai costi standard per la spesa sanitaria delle Regioni. Nei giorni scorsi i Governatori hanno rilanciato il progetto, ma la sua attuazione è ancora tutta da definire. Prima di declinare rapidamente sotto i colpi della crisi finanziaria e della cura-Monti, comunque, i tentativi di avviare qualche aspetto del federalismo fiscale non hanno mancato di costruire qualche paradosso: come i premi ai «Comuni virtuosi», che nel 2010 sono finiti ad amministrazioni come Taranto, appena uscita da un fallimento fragoroso, o Catania e Palermo, che per evitare il default avevano appena ricevuto sostanziosi aiuti statali
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