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Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2013 alle ore 17:54.

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Nel gioco dei numeri per ora il gruppo di Alfano dimostra di aver avuto ragione. C'era la possibilità concreta che molti dei dissidenti avvertissero il richiamo del padre-padrone e tornassero indietro, ma non è stato così: almeno non fino a questo momento. Deve essere anche per questo che sabato Berlusconi non ha infierito sugli scissionisti: perché avvertiva d'istinto la propria debolezza e quindi l'impossibilità di schiacciare la ribellione come avrebbe voluto.

Certo, la partita è lunga e gli sviluppi talvolta imprevedibili. Ma se dobbiamo stare alla volontà degli "alfaniani", chiamiamoli così, il governo Letta non corre rischi. Il nuovo gruppo moderato è nato a prezzo di un trauma per consentire all'esecutivo di andare avanti (almeno per un anno, ma se possibile di più). Non ha né avrà nel prossimo futuro alcun motivo di cambiare idea. Tanto più che le adesioni lentamente sembrano aumentare, mentre non si annunciano ripensamenti. E anche questo è un segno dei tempi su cui Berlusconi dovrebbe riflettere.

Questo vuol dire che Letta può dormire sonni tranquilli almeno fino al 2015, oltre le elezioni europee e anche oltre il semestre di presidenza italiano dell'Unione? Non proprio. Per almeno tre ragioni. La prima è che nessuno oggi è in grado di scommettere sui tempi lunghi della maggioranza a causa della complessità dei problemi aperti. La vera carta che il premier potrebbe giocare sarebbe l'avvio della ripresa economica entro qualche mese. Questa sì che sarebbe una garanzia di durata per il governo, assai più delle operazioni di palazzo. Ma al momento le buone notizie sul fronte dell'economia arrivano con il contagocce, quando arrivano. E Letta deve centellinare il suo ottimismo per non perdere in credibilità.

Del resto anche con l'Europa il rapporto è increspato, come si è visto nella vicenda degli appunti mossi dal commissario Olli Rehn al nostro governo. Occorrono nervi saldi per superare senza danni questa fase: nervi saldi e l'intelligenza di prendere misure chiare, ancorché impopolari. Vero è che la stampella degli ex berlusconiani sembra solida, ma da sola potrebbe non bastare se la crisi si aggravasse fornendo nuove armi alle opposizioni. E non solo ai "grillini": non va dimenticato che fra breve, dopo il voto sulla decadenza di Berlusconi, anche la nuova Forza Italia comincerà a fare un'opposizione dura al governo. Già se ne vedono i segni, per esempio nell'intervista televisiva di Bondi, stretto collaboratore di Berlusconi.

La seconda ragione riguarda il Pd. Oggi il centrosinistra non ha più l'alibi di Berlusconi. Dopo la scissione, le polveri del grande destabilizzatore sono bagnate e tocca ai democratici assumersi certe responsabilità. Non si potrà più dire che il governo traballa e forse cade per via delle manovre della destra. Ora non è più "tempo di ipocrisie". La frase è di Civati, il più debole dei candidati alla segreteria, ed è riferita al caso del ministro Cancellieri, a proposito del quale la Camera voterà a giorni una mozione di sfiducia. Sono parole significative di uno stato d'animo. Ma quanti nel Pd sono disposti a colpire oggi un ministro e magari domani un altro pur di affrettare la fine delle "larghe intese" (che nel frattempo sono diventate meno larghe)? Finora ha prevalso il realismo in via del Nazareno e dopo la scissione del Pdl questo senso pragmatico è ancora più necessario.

D'altra parte, occorre capire se i nuovi particolari emersi circa le leggerezze al telefono del Guardasigilli siano una cosa seria o solo un'esca per le strumentalizzazioni. Di sicuro, siamo un po' al limite. Le dimissioni della Cancellieri sarebbero un colpo durissimo per il governo, specie dopo lo slancio convinto con cui il premier Letta e lo stesso Quirinale hanno difeso la buona fede del ministro. Ma ora il bivio è chiaro. O il Pd cede alla linea più intransigente (che poi coincide con quella dei Cinque Stelle) e chiede la sua uscita di scena; oppure tiene duro e continua a fare quadrato intorno all'esecutivo. Nel primo caso vorrebbe dire che si è messo in moto un processo destinato a indebolire via via il governo e forse a condurre alla sua non lontana caduta. Nel secondo il significato sarebbe che il centrosinistra ha ancora fiducia nel vertice istituzionale e nella capacità di Letta di traghettare il paese – con questa maggioranza – verso un approdo.


La terza ragione per la quale il presidente del Consiglio non può ancora dormire sonni tranquilli riguarda le imminenti elezioni europee. Si voterà con il proporzionale, come si sa, e nell'Unione tutti i populisti anti-europei stanno affilando le armi. In Francia i sondaggi danno Marine Le Pen in testa. In Italia il terreno sembra propizio per le scorrerie di Grillo, ma anche per l'esordio della rinata Forza Italia. Difendere il buon senso della politica filo-europeista non sarà facile né per Letta né per il suo alleato Alfano. A causa della crisi, l'Europa non è molto popolare di questi tempi presso l'opinione pubblica, anche per gli errori commessi in questi anni. E infatti Letta ha già cominciato a battere contro l'austerità, insistendo sulla necessità di cambiare passo nelle politiche comunitarie. Ma il tempo stringe e un'importante vittorie delle forze d'opposizione nei vari paesi dell'Unione avrebbe l'effetto di indebolire i governi. Compreso il nostro, ovviamente, che a differenza di altri è più esposto alle polemiche interne e ai rischi di incidenti di percorso.

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