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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2013 alle ore 06:45.
L'ultima modifica è del 23 gennaio 2014 alle ore 13:05.

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(Corbis)(Corbis)

Un milione circa di convivenze, di cui la metà tra persone mai coniugate: è questo l'ultimo scatto dell'Istat sulla "famiglia di fatto" in Italia. Un fenomeno in crescita, in controtendenza rispetto ai nuovi matrimoni: ne sono stati celebrati poco più di 200mila nel 2012, con un calo quasi del 5% l'anno dal 2007 al 2011.

Mentre la legge insiste a ignorarle, le convivenze reclamano regolamentazione: finora, l'hanno elaborata i giudici, chiamati a dirimere conflitti e pretese contrastanti. Ma le situazioni di crisi possono essere prevenute stipulando un contratto di convivenza, vale a dire un contratto con il quale disciplinare le problematiche più frequenti da gestire nell'ambito di una convivenza. In particolare:
- gli "apporti" (patrimoniali, finanziari e lavorativi) di ogni convivente;
- la proprietà dei beni acquistati durante la convivenza;
- il mantenimento del convivente privo di risorse;
-l'uso dell'abitazione in cui la convivenza si svolge;
- la definizione dei rapporti in caso di cessazione della convivenza.
A guidare questi contratti c'è ora il formulario con le clausole contrattuali messo a punto dal consiglio nazionale del Notariato, che ai patti di convivenza ha dedicato anche una giornata informativa il 30 novembre. I notai hanno infatti sciolto i dubbi sulla legittimità della regolamentazione delle convivenze (resta incerta solo la situazione delle convivenze tra persone vincolate da un legame matrimoniale con altri). Del resto, è ormai acquisito che la famiglia di fatto – anche tra persone dello stesso sesso – è una di quelle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell'individuo, riconosciute e garantite dall'articolo 2 della Costituzione. La Consulta l'ha affermato in più occasioni (tra le altre, con le sentenze 461 del 2000 e 140 del 2009), anche con riferimento alle coppie omosessuali (si veda la sentenza 138 del 2010).
Va da sé che i contratti di convivenza non possono garantire alle famiglie di fatto tutte le tutele – anche patrimoniali – offerte, invece, dal matrimonio: ad esempio con la pensione di reversibilità nel caso di morte di uno dei coniugi o con gli assegni di famiglia. Piuttosto, si tratta di uno strumento che consente di regolare i rapporti tra i conviventi.

I contributi
Nel rapporto tra conviventi il primo problema da gestire, sotto il profilo economico e patrimoniale, è senz'altro quello delle risorse sulle quali il rapporto di convivenza può fondarsi. Non tutti i casi sono uguali: ci possono essere conviventi entrambi con fonti di reddito (uguali o diseguali), ci può essere il convivente che non ha redditi e che quindi contribuisce con il suo lavoro casalingo o quello che, pur lavorando non ricava formalmente un reddito (ad esempio, nel caso dell'attività di impresa o professionale di uno dei partner, nella quale l'altro dà il proprio contributo).
Nel contratto di convivenza occorre quindi disciplinare i rispettivi apporti. E ciò, da un lato, per evitare litigi dovuti alla mancanza di chiarezza iniziale; e, dall'altro lato, per limitare o annullare le pretese (di risarcimento o di restituzione) di un convivente verso l'altro nel caso in cui la convivenza non abbia un esito felice.
Se entrambi i conviventi contribuiscono con apporti in denaro, devono essere disciplinati almeno i seguenti aspetti: la periodicità degli apporti, la loro entità, il modo di raccoglierli (di solito, si apre un conto corrente ad hoc).

Le spese da finanziare
È poi fondamentale definire le spese che gli apporti debbono finanziare. Si può ad esempio trattare delle spese: per l'alimentazione di entrambi i conviventi, dei loro figli e dei loro ospiti occasionali; per la locazione dell'abitazione nella quale la convivenza si svolge; per le spese condominiali ordinarie; per l'erogazione di acqua, elettricità, gas, riscaldamento, servizi condominiali, telefono; per la pulizia e le riparazioni della casa, dei mobili e degli elettrodomestici; per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione dei figli.
Occorre fare anche il punto sulle spese straordinarie, pattuendo a chi devono fare carico: se a uno solo dei conviventi o a entrambi e, in quest'ultimo caso, in quote eguali o disuguali. Si tratta, ad esempio delle spese condominiali straordinarie, di quelle relative all'abitazione di proprietà di uno dei conviventi oppure alla sostituzione di mobili ed elettrodomestici. Ancora, è opportuno prevedere come ci si fa carico delle spese di vacanza e di viaggio o di quelle inerenti l'abbigliamento dei conviventi.

Punto dolente è poi il caso in cui, una volta promessa una certa contribuzione, uno dei conviventi non possa farvi fronte, ad esempio per aver perso il lavoro. In questi casi si potrebbe ad esempio prevedere che le spese comuni debbano far carico per un certo periodo al convivente che sia in grado di finanziarle e che, alla scadenza di questo periodo, il contratto di convivenza si sciolga e ne debba essere pattuito uno nuovo, che tenga conto della nuova situazione.

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