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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2013 alle ore 08:53.

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Che il formalismo non sia defunto nell'instabile terreno della danza contemporanea è positivo; dimostra che l'arte della coreografia, in sé, può avere un futuro, e progetti dagli sviluppi imprevedibili. Due gli spettacoli visti che rientrano, in questa categoria. Il nuovissimo Atomos (Indivisibile) dell'inglese Wayne McGregor, passato dal «Valli» di Reggio Emilia con il corredo di Scavanger (un'installazione site specific, negli spazi della Collezione Maramotti) e Limb's Theorem, di William Forsythe, in arrivo al Teatro Regio di Torino.
Nella sua interezza, La grammatica del corpo: un incontro tra danza, tecnologia e architettura, il progetto reggiano di McGregor, stranamente collima proprio con la vis architettonica di Limb's Theorem, anche se non ne condivide gli esiti struggenti ed emotivi. Anzi stupisce, che un coreografo da sempre interessato, con la sua compagnia Random Dance, alla percezione e alle scienze cognitive come McGregor – già autore di Far (2011), una pièce più che avvincente – non sia riuscito a raggiungere, in Atomos, ciò che si era prefissato. Ovvero, isolare o atomizzare, ogni singolo movimento, ogni «frase» del suo balletto per dimostrare l'indivisibilità tra l'azione e la necessità che la genera.
Reso ondivago da una musica, ora beatamente melodica, ora scossa da bagliori ritmici, e coloratissimo da luci per lo più nebbiose, Atomos agglutina gruppi, file, sparpaglia passi a due; distribuisce assoli spesso a terra, gravidi di movimenti complicati. Certo, offre un magnifico fondale dai riquadri quasi in rilievo grazie alle luci, e una visione in 3D per cinque piccoli schermi, appesi in cielo, dai quali fuoriescono fuochi, ciminiere, corpi in bianco e nero. Ma ciò non basta a scongiurare il sospetto di una superficialità compositiva ben lontana dal colpire i sensi dello spettatore. Ogni plauso va ai dieci interpreti virtuosi a piedi scalzi, dai quali emana, però, la stessa interiore freddezza dell'intera operazione. Atomos risulta un balletto generico e alla lunga persino noioso, anche se non voleva esserlo. È la classica ciambella senza buco: un'opera di passaggio, forse, per un coreografo quarantenne tra i più accreditati della scena internazionale cui il folto pubblico di Reggio Emilia ha tributato, comunque, calorosi applausi.
Tempra diversa per Limb's Theorem del 1990, che, diviso in tre parti, appartiene a una fase postmoderna e remota nella ricerca del sessantenne William Forsythe ma sembra confezionato ieri. Come molte sue creature sulle punte, nate per il defunto Ballett Frankfurt, è resuscitato. Il Ballet de Lyon, detentore dei diritti di diversi pezzi anni Ottanta e Novanta del coreografo americano, lo tiene in gran cura (è alla terza ripresa) anche perché questo «Teorema dell'arto» è tra i meno noti, se si esclude la sua parte centrale: Enemy in the Figure. Al debutto proprio a Reggio Emilia, nel 1989, spesso viene rappresentata da sola, ed è stata subito applaudita come una «poesia» di luci e ombre, di corpi, qui davvero simili ad atomi carichi di energia, che mutano lo spazio mentre lo attraversano, lasciando dietro di loro scie di movimento.
Una struttura rotante a forma di gigantesca vela bianca (prima parte) e due semi-calotte proiettate dal cielo con una gru pure in continua rotazione (terza parte), acclarano il debito «architettonico» di Limb's Theorem. Più sottile l'ispirazione alla Teoria del Frammento dell'architetto Aldo Rossi, agganciata a una coreografia deflagrata e proliferante «in perfetto disordine», cioè senza un principio e una fine, proprio come Atomos. Ma qui «la grammatica del corpo» di un Forsythe all'epoca già padrone dei più riposti segreti del «linguaggio» balletto (e di come liberarlo dalle briglie della coreografia tradizionale), è trasparente nei corpi, intimamente digerita; non è frutto di imitazione passiva, come parrebbe nei danzatori di Wayne.
Lo spazio nerissimo, in Limb's Theorem striato di fasci di luce rasoterra provenienti da una laterale saracinesca sollevata o abbassata, accoglie una danza, per una trentina di ballerini, che sgorga, nella prima e terza parte, sotto il chiarore delle vistose machinerie. È pura ricerca di tutto ciò che le gambe e le braccia possono esprimere se strette in duetti o terzetti per «raccontare» la bellezza, la pericolosità, la tortuosità in un universo misterioso e artificiale. Nell'elettrico cammeo Enemy in the Figure, invece, per undici danzatori, un muro di legno ondulato troneggia al centro. Grandi proiettori, su carrelli, vengono portati in scena dagli stessi danzatori e creano luci da suspence story. La velocità esalta i loro costumi a frange nelle rotazioni, riverbera le loro silhouette sul muro. La musica, di Thom Willems, contribuisce a creare un clima ambiguo di imminente sciagura e di giocosa rivalsa quasi infantile. Persino una corda bianca, a terra, smossa da un piede appena sollevato, diviene parte del «discorso» coreografico, proprio come gli assoli di spiritata inquietudine. O la squisita eleganza di quella ballerina in tutina bianca che, stando a lato della scena, con la sua imperturbabile quiete, mai si mescola alle vibrazioni successive.
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Atomos, Random Dance, Teatro Romolo Valli, Reggio Emilia
Limb's Theorem, Ballet de Lyon, Teatro Regio, Torino, 29 novembre, 1° dicembre

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