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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2013 alle ore 08:53.
È un tema che si tratta spesso ma che è piacevole ripetere appena si può: i pianisti italiani di jazz. È una merce da esportazione valida e abbondante quanto forse in nessun altro luogo d'Europa. E non da oggi. Anziani e giovani girano il globo, incantano platee lontane, vincono premi, sono chiamati a incidere da etichette estere, attirano nella loro orbita jazzisti di fama d'ogni continente. E proprio questo sapersi porre alla pari con i più stimati colleghi è lo strumento di misura maggiormente affidabile.
Due dischi testé usciti offrono nuovi esempi di queste simbiosi. Uno va incluso tra le infinite idee realizzate da chi del suddetto clan si fa oggi notare come il capofila: Stefano Bollani, 41 anni il prossimo 5 dicembre. La raffinata etichetta bavarese Ecm se l'è trovato in casa una decina d'anni fa al seguito del suo mentore Enrico Rava e da allora se lo è tenuto stretto, sia pure non in esclusiva, facendolo incidere come volesse: ogni volta in una formula diversa. Per lo più quella del duo, come adesso è con un ospite a sorpresa: il re del mandolim (mandolino brasiliano a dieci corde), il carioca Hamilton de Holanda.
È costui un virtuoso che con i jazzisti non s'è incontrato spesso, ma è artista curioso, notoriamente aperto, e in quell'impatto (in un teatro di Anversa, estate 2012) si è lasciato trascinare. E di Bollani, onnivoro in musica, era già ben nota la passione anche per quella del Brasile. Logico che nel contatto con un virtuoso di simile statura si trovasse entusiasticamente ingolosito. Fino a sfrenarsi anche nell'ironia. In un repertorio che rivisita gemme dei grandi Jobim, Buarque, de Moraes (e dell'argentino Piazzolla) Bollani ha inserito anche quello che fu uno degli ultimi successi di Buscaglione, Guarda che luna, nel cui finale lui fa la buffa imitazione di Paolo Conte. Insomma, ripagate le attese: di loro due, del pubblico là presente e ora la nostra.
Di tutt'altro genere è l'incontro che ha voluto e saputo fare Antonio Faraò, 48 anni, altro ammiraglio della nostra flotta di pianisti jazz. Lo si ricorda suonare in calzoni corti quando – assieme a quell'altro enfant prodige che era il suo fratello maggiore Ferdinando, oggi quotato batterista – già stupiva nel milanese Capolinea. E le promesse che ci faceva allora nel mitico locale sul Naviglio poi Antonio le ha tutte mantenute, e con fior di interessi, facendosi strada più all'estero che sotto casa, soprattutto in Francia (deve ha vinto il premio Martial Solal) ma anche negli Stati Uniti.
E appunto a New York è tornato ancora una volta, qualche mese fa, per incidere l'ennesimo suo disco, ma stavolta con partners che qualsiasi pianista sognerebbe: al sax tenore Joe Lovano e alla batteria Jack DeJohnette, nientemeno che due leader, anzi di più: due "numeri uno" assoluti, avendo vinto in questo 2013 quella specie di elezioni generali, strumento per strumento, fatte ogni estate dai critici internazionali nel referendum del Down Beat. Completava il gruppo un contrabbassista non così celebre ma dal curriculum lungo e glorioso: Ira Coleman.
Incantevole Lovano (che in novembre accompagnerà l'amico italiano il 13 a Bologna, il 14 a Macerata, il 15 a Moncalieri, il 16 a Padova e il 17 a Milano), ma tutti fanno splendidamente la loro parte, condividendo l'entusiasmo di Faraò. Il quale, prodigo per natura di idee, riesce anche a farli partecipare a un omaggio alla canzone italiana: è la melodia trovajolana di Roma nun fa la stupida stasera a essere scandita quasi alla lettera prima di essere avvolta in un'atmosfera astratta dai quattro grandi improvvisatori.
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Stefano Bollani – Hamilton de Holanda: O que será, (ECM 2332, distr. Ducale).
Antonio Faraò: Evan, (Cristal CR 217, distr. Jando Music).