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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2013 alle ore 08:51.

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L'inizio del ventunesimo secolo ha respinto senza appello le rosee previsioni declamate alla fine della Guerra fredda sull'automatico diffondersi di una pacificazione politica ed economica planetaria. Lo sviluppo degli anni Novanta, con la tenuta della crescita nei Paesi-centro (Europa, Stati Uniti e Giappone) e l'emergere di nuovi protagonisti, ha subìto, infatti, una brusca frenata. Il decennio clintoniano ha conosciuto dal 2002 al 2007 una coda di disordinato sviluppo per molti versi analoga a quel quinquennio di effimera stabilizzazione che, fra il 1924 e il 1929, consentì agli Stati Uniti di inondare di dollari l'Europa occidentale, quel periodo che Francis Scott Fitzgerald commentava precocemente con queste parole: «E Wall Street crassa e banale ... di nuovo era il trionfo dell'oro. Uno sgargiante spettacolo consapevole» (Belli e dannati, 1922).
A allestire il nostro «sgargiante spettacolo consapevole» d'inizio millennio non c'erano però gli Stati Uniti, bensì le economie emergenti, soprattutto asiatiche, che, da allora, hanno iniziato a dominare il commercio internazionale. La bassa volatilità e, quindi, la percezione di un limitato rischio degli impieghi finanziari, l'inflazione contenuta, le politiche monetarie accomodanti, l'espansione senza freni del credito, hanno corrisposto a un'accelerazione straordinaria del passo dell'ingegneria finanziaria in parte defluita in quello che Ben Bernanke ha definito come un complesso di exotic financial instruments.
A metà del 2007 questo euforico cabaret è traumaticamente terminato: l'instabile non-sistema è stato scosso da uno shock dapprincipio di modeste dimensioni che, tuttavia, ha innescato una caduta a domino del mercato azionario, l'inceppamento del sistema credito, alcuni clamorosi fallimenti bancari che non hanno tardato a proiettarsi sull'economia reale, aggravando le conseguenze della contemporanea impennata dei prezzi del petrolio e delle materie prime provocata dall'incalzante richiesta delle economie emergenti.
Da quell'episodio parte il racconto di Marcello de Cecco su una crisi non ancora conclusa che, per intensità e diffusione, è certamente la più grave dal dopoguerra. Non si tratta di una trattazione organica sull'avvitarsi della "grande contrazione", bensì di un racconto che si snoda in presa diretta, essendo i saggi qui raccolti una scelta di articoli tra i numerosi dell'autore apparsi su Repubblica. Il volume ricompone in maniera efficace i passaggi chiave della crisi e lo fa con una lucidità analitica grazie alla quale è possibile allineare le storture, le rigidità, la fallacia dei rimedi proposti dai mandarini della cosiddetta economia «ortodossa», i quali hanno assistito imbelli allo sbriciolarsi del mondo virtuale nel quale avevano fatto passeggiare un non troppo inconsapevole establishment politico.
Gli attori e i teatri della crisi sono tutti descritti e discussi con una capacità di individuare i nessi causali e storici che testimoniano il temperamento intellettuale di un osservatore appassionato, e sono caratterizzati dal fermo rigore logico, dall'usuale tono sferzante e talvolta scopertamente polemico che trasformano il volume in un abecedario dell'ultimo lustro. Vediamo così schierati in una rassegna impietosa la gestione incerta del declino statunitense, l'apnea di un'Europa a tre velocità messianicamente aggrappata ai suoi dogmi, il bizzarro ergersi a modello di probità di una Germania ossessionata dai suoi spettri, l'afasia politica di una classe dirigente equilibrista esperta in ogni pratica dilatoria, l'affermarsi di realtà inimmaginabili fino a solo dieci anni fa.
De Cecco ci guida attraverso le tappe che hanno composto lo scenario con cui abbiamo imparato a convivere senza mai indulgere all'eccezionalismo dell'attualità e, anzi, ricordandoci che le crisi finanziarie sono una robusta pianta perenne, e questa, qui documentata, condivide con le sue progenitrici alcune caratteristiche strutturali. Coloro che hanno usato il vessillo del «questa volta è diverso», leggendo de Cecco si renderanno agevolmente conto di quanto corrivo sia tale giudizio: al di là del mai troppo utile gioco delle analogie, ogni crisi è diversa dalle altre, e quella attuale ha provocato terremoti a catena nei principali centri finanziari, e disfunzioni gravissime sui mercati, che annunciano sommovimenti politici e cambiamenti nella gerarchia del potere globale del tutto diversi da quanto conosciuto nell'età aurea del capitalismo atlantico. La diffusione dall'epicentro è stata rapida e particolarmente estesa e, quel che più conta, essendo il sistema finanziario equiparabile al sistema nervoso delle relazioni internazionali, ha fatto affiorare con nettezza il profilo di nuovi equilibri politici e ha scoperto nuove linee di faglia in Paesi particolarmente sensibili al ciclo internazionale.
È questo il caso dell'Italia, alla quale de Cecco dedica un terzo del suo racconto con articoli che danno i brividi perché mostrano ciò che era possibile (e necessario) fare e che fu invece posticipato sine die trasformando il nostro Paese in uno dei centri della crisi. Si possono cercare molte spiegazioni dell'attuale stallo italiano, e sarà difficile sbagliare la diagnosi guardando anche solo le cause interne: lo scadimento vertiginoso delle élite, l'incapacità di realizzare un disegno che metta in discussione lo status quo, l'incapacità di invertire la rotta della divergenza aperta vent'anni fa nei ritmi di crescita, eccetera eccetera.

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