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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2013 alle ore 08:50.

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Assistere, in un breve volgere di tempo, alla rappresentazione di uno stesso testo da parte di due registi diversi, e in due diverse chiavi di lettura, è sempre interessante. E ancor più utile si rivela questa doppia prospettiva di fronte a un testo misterioso e per molti aspetti ancora irrisolto come Il ritorno a casa di Pinter, visto pochi mesi fa nella (fragile) messinscena di Luc Bondy e rivisto ora nella regia ben più forte e decisa di Peter Stein, in scena ora al Teatro Grassi di Milano, dopo il debutto dello scorso luglio a Spoleto.
Qual è, in definitiva, il significato di questa vicenda all'apparenza piuttosto contorta, che ruota intorno a una famiglia di ex proletari della periferia londinese, l'anziano padre-padrone in declino, suo fratello, guidatore di auto pubbliche, un figlio aspirante pugile e l'altro che probabilmente fa il magnaccia? In questo piccolo universo maschile e maschilista piomba in visita senza preavviso, nella notte, un terzo figlio, docente di filosofia in un'università americana, accompagnato dalla bella moglie Ruth, da cui ha avuto tre figli. Perché costei, di primo acchito, viene scambiata dal vecchio per una puttana? E perché, quando i suoi rapporti con gli uomini del clan paiono sul punto di chiarirsi, lei cambia del tutto atteggiamento, comincia a sedurli a uno a uno, decide di non seguire il marito negli Stati Uniti, e sceglie di restare con loro assumendo il ruolo che era stato della padrona di casa morta da anni – moglie e madre di non specchiate virtù – dandosi a tutti e accettando addirittura di prostituirsi per non gravare sul bilancio domestico?
A questi interrogativi l'incerta interpretazione di Bondy non accennava dar risposta. Molto più risolutivo è l'approccio di Stein, che appiana tante contraddizioni del testo adottando un tono uniformemente derisorio, a tratti quasi parodistico: specialmente la raffigurazione di Teddy, l'intellettuale, come un tontolone inetto, giustifica certe incongruenze. Ma l'intero gruppo è ritratto impietosamente: il padre è un vecchietto debole, capriccioso, lo zio un fallito logorroico, gli altri figli sono dei bruti ottusi. Tutti si salutano con dei vistosi good morning, in un accento affettato che sottolinea la caricatura della middle class inglese. Tutti paiono un po' sghembi, un po' sgualciti, come fossero appena usciti – altro che atmosfere di minaccia – dalle vignette di Andy Capp, il che però rende il quadro ancora più inquietante. Ma la vera trovata dello spettacolo è la caratterizzazione di Ruth, lontanissima dall'abbacinante sensualità di Emmanuelle Seigner, protagonista del precedente allestimento, e anzi all'inizio piuttosto dimessa, pronta però a trasformarsi – come in trance, forse guidata dallo spirito della defunta – in una sfrontata seduttrice, capace di mettere tutto il branco ai suoi piedi. Perché lo fa? L'ipotesi di Stein, che agisca per vendetta nei confronti dell'altro sesso, è piuttosto debole: l'idea che una donna arrivi a concedersi e persino a vendersi per punire i propri sfruttatori appare francamente poco convincente.
Di alto livello, invece, l'impeccabile ordito recitativo, diretto con mano salda dal regista: spiccano in particolare, fra gli attori, Paolo Graziosi e la bravissima Arianna Scommegna, che sfoggia un talento ormai maturo, pronto per grandi traguardi. Ma danno un prezioso contributo, al loro fianco, anche Elia Schilton, Alessandro Averone, Rosario Lisma, Andrea Nicolini.
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Il ritorno a casa, di Harold Pinter, regia di Peter Stein, Milano, Teatro Grassi, oggi ultima replica

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