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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2013 alle ore 08:50.

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L'idea al centro del primo film di Pif, giornalista di Le iene e poi Il testimone, è davvero curiosa. Un bambino cresce a Palermo negli anni 70 e 80, e il suo destino si incrocia in maniera tragicomica con gli eventi di mafia.
Concepito nell'istante della strage di viale Lazio (1969), il piccolo Arturo, impersonato dallo stesso Pif, fa la dichiarazione a una compagna di classe su un marciapiede che esplode poco dopo, perché in quella casa abita il giudice Rocco Chinnici. Il suo momento di trionfo con la lettura pubblica di un tema è interrotto dalla notizia dell'uccisione di Pio La Torre, e così via. Il protagonista è un piccolo Forrest Gump, cresciuto in una famiglia che non si immischia di mafia o antimafia: piccola borghesia di ignavi, il loro figlio porterà al paradosso la loro falsa coscienza, tramutandola in un universo pop. La guida spirituale del ragazzino saranno perciò Andreotti e le sue battute, e il presidente del consiglio la sua icona pop. A far aprire gli occhi al protagonista, ormai adulto e innamorato, sarà l'incontro con la campagna elettorale di Salvo Lima, l'assassinio di quest'ultimo e le stragi mafiose del 1992.
Spinto avanti, nei momenti di stanca, da una (un po' invadente) voice over del regista-attore, il percorso ha un suo ritmo, con gag spesso divertenti. Decine di figure note della storia recente, da Dalla Chiesa ai boss, sono trasfigurate in immagini da favola morale.
Palermo è una specie di villaggio in cui nel giro di due isolati sembra abitino tutti, da Boris Giuliano a Chinnici, da Riina a Salvo Lima, come l'ironica versione di un teatrino dei media. Tra le cose migliori di questa parte, una trascinante prova di Ninni Bruschetta nei panni di fra' Giacinto, personaggio che sembra inventato ma che, come gran parte del film, è reale. È quando il protagonista cresce che l'operazione perde fiato, perché al posto della surreale passione per Andreotti, subentra una più prevedibile educazione sentimentale e civile.
Anzi, più o meno volontariamente, il film si rivela di grande interesse per capire cosa è diventata la mafia per una generazione di siciliani e di italiani. Se quasi vent'anni fa un film come Tano da morire, ideato all'indomani degli attentati in tutta Italia, era un esorcismo, e prima ancora l'umor nero di Cinico Tv un solitario anticorpo, qui tutto trascolora in un passato vintage più che storico. In una scena significativa, quasi un lapsus, il protagonista, all'indomani della strage di Capaci, si trova incastonato tra le immagini dei tg, dentro il video a bassa definizione dell'epoca. Come se Cosa Nostra fosse ormai parte di un paesaggio pop dei media, tra Ivana Spagna e Bontà loro, come se (almeno "quella" mafia) fosse qualcosa di passato e soprattutto riconoscibile, visibile e dunque raccontabile.
La mafia uccide solo d'estate è però anche uno dei primi film a muoversi nell'orbita della piccola e media borghesia, tra impiegati e direttori di banca, ricordando che la mafia è anzitutto fenomeno urbano e borghese. E soprattutto, è forse l'unico film a raccontare la "zona grigia" tra mafia e antimafia, quel settore maggioritario della società isolana che per un attimo parve prendere coscienza, come il film giustamente ricorda, dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino.
Un ministro di Forza Italia se ne uscì tempo fa con l'infelice battuta che «con la mafia si può convivere». Il film racconta questa convivenza, e nel contempo si fa testimone della trasformazione della mafia in immagine mediatica, fiaba nera. Pif testimonia, volente o no, questa mutazione nella percezione collettiva della mafia. Ma poiché, da palermitano, quella storia l'ha vista da vicino, costruisce la seconda parte del film quasi negando la prima, secondo lo schema del romanzo di formazione: il protagonista esce dal suo candore pop e scopre cos'è davvero la mafia. Il paradosso è che a funzionare davvero è la parte, diciamo così, da mafia movie postmoderno, senza super-Io civile, libero di muoversi in un magma di immagini e finzioni. Infatti la figura meno risolta della prima parte è quella "pedagogica" del giornalista interpretato da Claudio Gioè, e, inversamente, nella seconda parte i momenti migliori sono quelli dedicati al mondo delle tv private.
Andando contro lo spirito del tempo (e in parte del proprio film) Pif ricorda alla fine la necessità di costruire una memoria pedagogica dell'antimafia. In questo modo le stragi del '92 diventano, paradossalmente, il preludio a un lieto fine, una catarsi e una presa di coscienza: il bacio finale avviene ai funerali di Borsellino. E il rischio è che il martirologio finale sia una forma di consolazione. Anche perché, ormai, i politici che continuano a trafficare nella "zona grigia" non hanno più alcun problema a distribuire targhe antimafia e a onorare memorie.
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