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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2013 alle ore 08:42.

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Erroneamente cataloghiamo tra le banalità l'attribuzione della conoscenza agli altri, quali Tizio sa che il Colosseo si trova a Roma, Caio sa che Lance Armstrong ha fatto uso di sostanze dopanti, Sempronia sa che il marito la tradisce. Se la teoria della conoscenza si interessa da sempre di queste attribuzioni, problematiche, piuttosto che banali, le ultime ricerche insistono ancor più sulla questione, individuando tre diversi rilevanti trend, così come vengono ben rappresentati in Knowledge Ascription, curato con maestria da Jessica Brown e Mikkel Gerken – volume quindi a più voci, e non può essere altrimenti di fronte a un argomento complesso che si vuole sondare nel dettaglio, senza tuttologia (chissà perché i volumi collettanei nel nostro paese non funzionano; forse, è che qui da noi la tuttologia va per la maggiore?).
Dicevo dei tre trend. Il primo rimane quello linguistico, primo pure storicamente per chi crede che la cosiddetta svolta linguistica abbia rivoluzionato la filosofia e su essa si radichi la filosofia analitica. Ma, mentre oggi ormai in pochi "riducono" la filosofia analitica alla filosofia del linguaggio, occorre ogni volta ricordare che sul linguaggio hanno riflettuto in parecchi: basti citare un autore "continentalissimo" quale Martin Heidegger. Trend linguistico in cui le nostre attribuzioni di conoscenza si legano al nostro linguaggio ordinario (con la semantica versus la pragmatica, o una sorta di collaborazione/integrazione tra le due?).
Il secondo trend si attesta quello della svolta cognitiva: attribuendo conoscenza, impieghiamo processi cognitivi, che devono svolgersi in un modo ben determinato e, in proposito, è la filosofia a dirci qualcosa, in quanto disciplina normativa; si tratta di processi che si svolgono anche in un certo, forse in un altro modo, e per capire ciò occorre fare ricorso alle scienze cognitive, oggi sempre più affini alle neuroscienze, benché, a mio avviso, urge un chiarimento tra le prime e le seconde. Per di più, come evitare di considerare il problema dei nostri giudizi intuitivi nell'attribuzione? In proposito, fondamentale allora rileggere un lavoro ragguardevole di Daniel Kahneman: Maps of Bounded Rationality: A Perspective on Intuitive Judgment and Choice.
Il terzo trend, l'ultimo sul piano temporale, il che non implica lo stesso sul piano teorico, riguarda l'aspetto sociale dell'attribuzione. Non pensate a John Searle, alla sua critica all'intelligenza artificiale forte, all'esperimento mentale della stanza cinese, alla costruzione di una qualche realtà sociale. Il punto è ben più innovativo. Chiama in causa le funzioni sociali delle nostre attribuzioni di conoscenza, a partire non da Searle, bensì da diversi lavori di Edward Craig. Il che rimane strettamente legato, oggi come oggi, e non solo, al problema della testimonianza, a quanto e come trasmettiamo agli altri e a quanto e come gli altri ci trasmettono, all'attendibilità del testimone e alla possibilità di attribuirgli la conoscenza che ci comunica, sempre che ci venga comunicata conoscenza, non qualcosa di ben diverso: mere opinioni oppure misere menzogne – vi ho ragionato su (Per sentito dire, Feltrinelli), e proseguo a farlo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Jessica Brown and Mikkel Gerken,
a cura di, Knowledge Ascription, Oxford University Press, Oxford, pagg. 312, £ 40,00
www.niclavassallo.net; nicla.vassallo@unige.it

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