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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2013 alle ore 17:56.

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Il triangolo d'oro dei cinesi al Nord ha un lato per nulla esplorato, praticamente sconosciuto: Padova e l'intero Nord-Est. Una scoperta che obbliga i cartografi della migrazione biblica cinese nel Bel Paese a ridisegnare la mappa con tre vertici di un triangolo che da Milano scende a Prato e poi risale verso la capitale del Nord-Est. I numeri sono impressionanti, pari alla propagazione del fenomeno. Nel 2005 in Corso Stati Uniti, zona industriale di Padova, non c'era una sola attività commerciale che proponesse articoli made in China.

Adesso sono 2000, tutti gemmati nella vecchia area industriale di oltre 23 mila metri quadri di proprietà dei Marchiorello, storica famiglia di industriali padovani e proprietari delle officine Stanga, dove si costruivano i vecchi tram che ancora sferragliano per Milano. Altri tempi. Marchiorello chiude e alla sua porta bussano impresari cinesi rappresentati da un certo Fabio Hu, che non vuole saperne di parlare con il cronista del Sole 24 Ore. Marchiorello affitta l'intero complesso alla Y&C Srl, una società cinese che suddivide i capannoni in stand dai 25 ai 100 metri quadrati e subaffitta ai singoli grossisti. Nel passaggio il valore lievita da 5.50 a 16 euro a mq. Un bell'affare. Gli spazi vanno a ruba e si esauriscono nel giro di qualche anno, tanto che un imprenditore torinese replica il modello Marchiorello: prende in affitto un'altra mega area di 30 mila metri quadrati alle spalle delle ex officine Stanga e l'affitta interamente a una società cinese per un controvalore di 882mila euro l'anno. Nulla di illegale. Tutte queste operazioni sono passate al vaglio del Comando provinciale della Guardia di Finanza di Padova guidata dal colonnello Zelano. Che dice: «Colpisce la scelta logistica dei cinesi, degna del signor Ikea: da Padova controllano una porzione strategica del Paese che a occidente si salda con la Lombardia, a Sud con Emilia e Toscana e a Est al corridoio balcanico».

Gli spazi sono suddivisi in box di varie metrature dove si vende di tutto: scarpe, vestiti, accessori, bigiotteria, giocattoli. I clienti arrivano dal Veneto, Friuli e soprattutto dalla Polonia, Ungheria e l'intera area dell'Est Europa, ma non pochi sono commercianti padovani che con un'inevitabile ambivalenza, visti i tempi grami, si lamentano della concorrenza sleale del centro all'ingrosso, che spesso e volentieri vende al dettaglio, e poi urlano contro la colonizzazione del commercio da parte dei sudditi dell'Impero di Mezzo. La difesa della categoria è affidata al presidente della Camera di Commercio e dell'Ascom Ferdinando Zilio, che un giorno sì e una no tuona contro il lassismo delle istituzioni. «Nel centro all'ingrosso i cinesi mangiano, dormono e ospitano a pagamento altri immigrati». Grand hotel China, insomma.

In sette anni il centro ingrosso di Padova ha portato alla chiusura quello omologo di Treviso, assorbendo uno dopo l'altro tutti i commercianti con gli occhi a mandorla della Marca. Le Fiamme Gialle hanno sequestrato 700 milioni di pezzi, merce che non rispettava le normative Ue, una montagna di articoli (compresi fuochi d'artificio e capi di abbigliamento contraffatti), stivati in un capannone industriale affittato in tutta fretta dalla Prefettura di Padova, che non riusciva a reperire locali idonei per ospitare una massa così ingente di prodotti.

Le multe piovono. È stata rilevata una base imponibile evasa di 14 milioni, più cinque milioni di Iva. Ma la sensazione è di giocare al gatto col topo, malgrado ben 150 tra irruzioni improvvise e controlli programmati delle forze dell'ordine. I cinesi non fanno mai opposizione e men che meno si appellano alle commissioni tributarie. «Pagano le sanzioni sull'unghia», ammette il colonnello Zelano, nella consapevolezza che nulla e nessuno debbano rallentare la ruota degli affari. Il triangolo d'oro, prima di tutto. Padova non è solo centro all'ingrosso. Basta chiederlo a Paolo, nome italianizzato del più vecchio imprenditore orientale e capo della comunità cinese - è stato il primo degli eletti alla consulta degli immigrati con oltre 390 voti - che dal 1987 gestisce il ristorante Shangai nel fascinoso e centralissimo ghetto della città del Santo: «Ventisei ani fa, quando arrivai, a Padova c'erano una cinquantina di miei connazionali. Ora siamo più di diecimila, la stragrande maggioranza regolari». Gli altri 8mila non stanno certo con le mani in mano. Almeno altri 2 mila sono stati censiti dalla Confartigianto del Veneto: sono tutti terzisti del Tac, tessile, abbigliamento, calzature, sparsi tra le province di Padova, Rovigo, Treviso. Verona e Vicenza. La progressione numerica dal 2002 al 2012 è altrettanto impressionate: da 147 a 625 in provincia di Padova; da 71 a 463 a Rovigo; da 89 a 254 a Venezia. E via via nelle altre province. Dice Gianni Maran, artigiano del tessile padovano e vicepresidente della Confartigianto regionale: «Dai nostri calcoli emerge che i cinesi hanno rimpiazzato uno dopo l'altro quasi tutti i tremila terzisti veneti espulsi dal mercato a causa delle crisi violentissima degli ultimi anni». È una regola, quasi un postulato: via un veneto, dentro un cinese. E si parla degli artigiani con gli occhi a mandorla emersi, una quota dei quali iscritti pure a Confartigianto. Sugli altri, i sommersi, fioriscono le stesse teorie di Prato o Milano. Spostamenti notturni di pulmini dalla Lombardia e dalla Toscana verso l'altro vertice del triangolo d'oro, il Nord-Est, ormai un'altra terra promessa. Racconta Maran: «Sono le truppe di lavoratori in nero, accorrano ovunque ci sia bisogno di loro: 48 ore di lavoro senza sosta e poi tornano alla base. Milano e Prato sono vicine, gli scambi tra le varie città praticamente quotidiani. Noi non abbiamo nulla contro i cinesi, ma le regole devono valere per tutti. Un artigiano con due dipendenti e 15 macchine nasconde la truffa. Ma i committenti non guardano in faccia nessuno. Pagano un euro per una camicia cucita e rifinita. Sì, un euro».

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