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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2013 alle ore 06:42.

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Fare profitti e non pagare tasse: è il sogno coltivato per due decenni dai bazarì iraniani che finanziarono generosamente la rivoluzione islamica dell'Imam Khomeini. Dopo la caduta dello Shah nel'79 si è in parte avverato con le Bonyad, le Fondazioni esentasse che hanno incamerato non solo le proprietà immense della corona imperiale ma anche la maggior parte dei conglomerati e delle attività economiche che facevano capo alle famose 100 famiglie introdotte alla corte dei Palhevi. Le nazionalizzazioni non avevano nulla a che vedere con il socialismo o il marxismo, che pure facevano parte insieme all'Islam sciita delle correnti ideologiche della rivoluzione: una nuova classe dominante rovesciava quella vecchia.
Era così che con l'alone dell'utopia rivoluzionaria il turbante dei mullah si sostituiva alla corona imperiale. Tutto questo - così almeno avrebbe voluto l'Imam - doveva andare a beneficio dei mostazafin, letteralmente i senza scarpe, i diseredati e gli oppressi in nome dei quali era stata fatta la rivoluzione. In realtà religiosi, ex rivoluzionari, pasdaran e uomini d'affari, si sono impadroniti del business di un Paese con enormi riserve di gas e petrolio.
L'”ayatollah economy” delle Fondazioni è la spina dorsale del potere, una rete clientelare e di welfare state che si ramifica nella società e si prolunga oltre i confini della repubblica islamica. Le Bonyad - un centinaio, di cui una dozzina quelle che contano davvero - hanno fini istituzionali caritatevoli e di assistenza ma non rinunciano ai profitti e coinvolgono più o meno direttamente cinque milioni di iraniani: sono quindi essenziali nella fabbrica del consenso del regime.
In questi giorni in cui si parla molto dell'accordo sul nucleare di Ginevra è scivolata fuori dal cono di luce dei riflettori la nomina di Aref Norozi al vertice della Barakat Foundation, impero del valore di 95 miliardi di dollari che fa capo alla Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei. Un labirinto di società, alcune entrate nel mirino delle sanzioni americane, protagoniste dell'economia: a questa Bonyad fa capo il consorzio che ha concluso per 8 miliardi di dollari l'acquisto delle quote della rete telefonica e Internet della Telecommunication Company, la maggiore operazione di Borsa nella storia del Paese.
Questa fondazione è parte della più vasta conglomerata controllata dalla Guida Suprema e conosciuta come “Setad Ejraiye Farmane Hazrate Emam”, ovvero «Sede per l'esecuzione degli ordini dell'Imam»: costituita con un'ordinanza firmata nel 1989 dall'ayatollah Ruhollah Khomeini, la società aveva il compito di gestire le proprietà abbandonate negli anni caotici post rivoluzionari per poter aiutare i poveri e i veterani della guerra durata otto anni contro l'Iraq (un milione tra morti e invalidi).
La società doveva rimanere in vita solo un paio d'anni ma nel corso del tempo si è trasformata in un colosso immobiliare - 52 miliardi di asset - che ha acquistato partecipazioni in decine di aziende pubbliche e private in quasi tutti i settori: finanza, petrolio, telecomunicazioni, dalla produzione di pillole anticoncezionali all'allevamento degli struzzi. Tra portafoglio immobiliare (53 miliardi di dollari) e quote societarie, 43 miliardi, la Setad ha un valore nettamente superiore alle esportazioni petrolifere iraniane dello scorso anno, circa 68 miliardi di dollari.
Nessuno mette in dubbio l'immagine sobria, quasi ascetica, della Guida Suprema Khamenei ma un'inchiesta della Reuters ha fatto infuriare Teheran perché si afferma che la fondazione avrebbe accumulato il suo patrimonio immobiliare sostenendo nei tribunali, con documenti contraffatti, che le proprietà erano state abbandonate. La Setad avrebbe quindi rivenduto gli immobili all'asta oppure chiesto ingenti somme per il riscatto dei beni ai legittimi proprietari. Il capo delle pubbliche relazioni della Setad, Hamid Vaezi, ha liquidato le rivelazioni come “lontane dalla realtà e scorrette”, sottolineando che in cinque anni attraverso la fondazione ha investito 1,6 miliardi di dollari in scuole e progetti di sviluppo.
Ma non c'è dubbio che le Bonyad siano il cuore di questa economia: detengono almeno il 30-40% del Pil e hanno sottratto spazio ai privati favorendo soltanto alcuni di loro, quelli vicini alla cerchia del potere che ricordiamolo è comunque sempre a geometria variabile, a seconda delle stagioni politiche.
La domanda di fondo è questa: è possibile riformare un'economia rivoluzionaria, per di più islamica? L'impresa è ardua. In Iran ci sono circa 80mila tra moschee, templi e istituzioni religiose che amministrano terre e imprese come facevano i monasteri nel Medioevo europeo, quando la Chiesa faceva concorrenza in tutti i campi al potere temporale. A Mashad la Fondazione Reza, sorta intorno al famoso santuario dell'Ottavo Imam, fattura il 7% del Pil iraniano e tiene in pugno l'economia del Khorassan; la Bonyad degli Oppressi, da dove viene anche Noroz attuale capo della Setad, ha un volume d'affari stimato oltre 12 miliardi di dollari l'anno e alla Borsa di Teheran il 60% della capitalizzazione è costituito da società che ruotano intorno all'ayatollah economy. Correggere il sistema, che ha larghe sacche di inefficienza, è la vera sfida per il governo di Hassan Rohani, che ha raccolto un successo elettorale travolgente promettendo di far uscire l'Iran dall'isolamento e riformare l'economia. Ha fatto il primo passo a Ginevra ma cambiare il sistema dall'interno è assai più complicato: in fondo anche lui è un mullah e, come dicono a Teheran, dovrebbe tagliare il ramo dell'albero dove è seduto.

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