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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2013 alle ore 06:48.

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PRATO
È l'idea che a Prato si rincorre da anni: inserire le confezioni cinesi – oggi al 90% impegnate a lavorare per committenti cinesi di fascia bassa, che vendono senza marchio e sono interessati solo all'etichetta "made in Italy" – nella catena di fornitura e subfornitura di aziende italiane o di grandi gruppi internazionali del fast fashion (come Zara e H&M), che possano (e vogliano) controllare con più efficacia la filiera produttiva degli abiti e innalzare la qualità dei capi. Il primo a lanciare quest'idea fu il sindaco Roberto Cenni nel gennaio 2010, idea poi ripresa anche di recente dagli industriali. Di fatto però passi avanti ne sono stati fatti pochi, e la pattuglia di committenti "non cinesi" è rimasta poco consistente e poco visibile.
A capeggiarla è da sempre Patrizia Pepe, marchio dell'azienda di abbigliamento Tessilform con sede vicino a Prato, 140 milioni di fatturato e 120 negozi nel mondo, che da più di 15 anni affida una parte della produzione a laboratori cinesi del territorio. «Non c'è alcuna differenza, neppure di costi, tra i laboratori cinesi con cui noi lavoriamo e i laboratori italiani», spiega Claudio Orrea, presidente e amministratore delegato dell'azienda che ormai da tempo è passata dal segmento "pronto moda" alle collezioni programmate con una «forte attenzione alla qualità». «I nostri terzisti cinesi non aprono e chiudono l'attività per sfuggire ai controlli, sono in regola e fanno le fatture – aggiunge Orrea – tanto che non hanno mai subito il sequestro del capannone o altre sanzioni delle forze dell'ordine. Quello scenario appartiene all'altro mondo produttivo cinese di Prato, di cui c'è da aver paura dal punto di vista dell'illegalità e del mancato rispetto dei diritti umani. Ma che, purtroppo, è prevalente».
Per Orrea il "primo" gruppo, quello dei confezionisti cinesi regolari, pesa il 10%, mentre il secondo fagocita il 90% e non accenna a scendere: «È impossibile che chi oggi produce senza regole e con operai in condizioni disumane accetti di cambiare strada – afferma l'imprenditore – perché perderebbe il pilastro stesso su cui fonda il suo guadagno». E allora, secondo Orrea, l'unica soluzione è «rendere un territorio ostile all'irregolarità», perché a quel punto «o l'irregolarità diventa più evoluta o se ne va da un'altra parte». La situazione in cui si trova oggi Prato, con i confezionisti cinesi irregolari che fanno concorrenza sleale ai confezionisti regolari italiani e cinesi, è «sotto gli occhi di tutti – dice Orrea – e nessuno fa nulla per estirparla. In un paese civile si deve competere tutti con le stesse regole e l'irregolarità deve essere assolutamente contrastata».
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