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Questo articolo è stato pubblicato il 08 dicembre 2013 alle ore 08:52.

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Asserragliati in una sala del Teatro della Tosse, rifugio sicuro, a quanto ci dicono, naturalmente protetto da minacce esterne, i due attori e gli (scarsi) spettatori presenti aspettano. Aspettano un evento non si sa se allarmante o positivo. Aspettano l'arrivo degli zombie, che viene dato per imminente. I due attori ora scrutano ansiosi oltre il sipario chiuso, verso l'ombra del palcoscenico da cui forse proviene il presunto attacco, ora si voltano nervosi verso la platea, puntando in quella direzione delle pistole immaginarie, mimate con le dita. Chi sono i due alla ribalta? Sono se stessi, Elvira Frosini e Daniele Timpano, ma sono anche dei personaggi. Sono i cittadini italiani medi di oggi, smarriti, timorosi di perdere le proprie certezze, sospettosi nei confronti di ogni sorta di «diversi». E chi sono gli zombie? Sono i diversi. Sono i vecchi che non muoiono, gli emarginati, i portatori di ideologie obsolete. Sono soprattutto, come si coglie a poco a poco, i «negri», gli stranieri, gli extra-comunitari che «vengono a sfruttarci, vengono a sfrattarci», oppure, viceversa, a portarci nuova linfa.
Non è il caso, però, di attribuire a questa metafora degli zombie un significato troppo preciso: il senso di Zombitudine è chiaro, ma le chiavi di lettura restano aperte. La coppia Timpano-Frosini – grandi irregolari del teatro, irridenti, graffianti, volutamente irritanti e politicamente scorretti – confeziona un testo che dovrebbe sembrare un non-testo, aleatorio, magmatico, apparentemente improvvisato, ma che invece è un testo vero, dall'andamento a corrente alternata, magari, ma non privo di una sua stralunata qualità poetica.
Più che il tema dei cadaveri viventi come emblema della nostra società (gli zombie fashion, gli zombie con mutande Calvin Klein), che qua e là è un po' ridondante, colpiscono soprattutto certi intensi monologhi sull'individuo solo di fronte alla paradossale bellezza della morte. Stranamente, data la vena comico-satirica dei due, funzionano meglio i toni acri, malinconici, la dolente constatazione che «il mondo appartiene ai morti. Il mondo è plasmato dall'infinito popolo dei morti».
Spicca, fra questi brani, l'incalzante rivendicazione di lei che non vuole tornare, non vuole risorgere, aspira a una fine definitiva: «Il mio corpo, sepolto nel cemento, nella sabbia, nel marmo, in grotte e cavità, in una palude o nel miele come Alessandro Magno, o immerso nel l'acqua, incastrato o appeso tra le chiome degli alberi, tra le radici degli alberi, nei buchi degli alberi, o imbalsamato, pietrificato, sgretolato, divorato da un parente, da un cannibale australiano; o esposto al cielo, in una torre del silenzio, ce ne sono ancora forse a Bombay...».
Lo spettacolo non manca di alcune trovate bizzarre, i due che col cellulare scattano foto del pubblico, e di se stessi in posa col pubblico sullo sfondo. Lui, che da dietro il sipario telefona per descrivere in vivavoce la presunta irruzione degli zombie. E poi i momenti di interazione con la platea, che deve condividere l'attesa dell'invasione (infatti non ci sono spettatori, ma aspettatori), deve fingere di sparare, deve partecipare a un'insolita litania: «Signore, dacci oggi il nostro odio quotidiano», scandisce il rancoroso officiante. E tutti insieme rispondono: «Odiamo. Odiamo. Odiamo». A un certo punto gli zombie paiono arrivare realmente: un gruppetto di sfigati vestiti di nero col megafono e cartelli che inneggiano a «Lutto continuo» e «Dittatura funeraria» appesi al collo. Ma il finale è ancora per i due protagonisti, che appaiono a sipario ormai spalancato, tra fumi verdastri, come automi svuotati, ansiosi solo di mangiarsi a vicenda. Sono morti? Sono loro i veri zombie? «Il dopo non c'è. Il prima neppure. Siamo fermi qua, in un punto morto». Come immagine della nostra condizione attuale non è comunque confortante.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Zombitudine, di Elvira Frosini e Daniele Timpano. Genova, Teatro
della Tosse, oggi ultima replica.
Il 13 e 14 a La Spezia

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