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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2013 alle ore 08:51.

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di Alberto Alemanno*
e Matteo Motterlini
Negli ultimi anni, le scienze comportamentali hanno svelato gli intimi meccanismi cognitivi che si celano, spesso inconsciamente, dietro le nostre scelte e decisioni. In particolare, l'economia comportamentale, confutando l'ipotesi neoclassica della piena razionalità umana, ha rivelato una serie di «distorsioni psicologiche» in grado di spiegare perché, spesso, le persone prendono decisioni che vanno contro i loro interessi. È ben documentata per esempio la tendenza delle persone a rispettare le impostazioni predefinite (si tratti dell'iscrizione a un fondo pensione, l'autorizzazione all'espianto di organi o semplicemente l'utilizzo di un software che gira sul nostro pc). Se non si è automaticamente indirizzati verso l'opzione che sarebbe per noi preferibile, è pertanto improbabile che la si sottoscriva spontaneamente. Allo stesso modo, sappiamo che un'informazione mirata e concreta può indurre un comportamento in senso virtuoso molto più efficacemente di statistiche asettiche e impersonali. Ecco perché le avvertenze illustrative dei prodotti del tabacco producono maggiori effetti dissuasivi delle avvertenze testuali. Sappiamo inoltre che il nostro comportamento è influenzato da quello che fanno gli altri, e che la percezione di una norma sociale determina l'assunzione di rischi in relazione per esempio al consumo di tabacco, droghe e alcol in una data comunità. È evidente che l'importanza di questi risultati per il benessere dei cittadini non può essere trascurata da politiche pubbliche «comportamentalmente informate». Peccato però che al momento a sfruttare questi aspetti siano soprattutto le multinazionali e i poteri forti, la cui vocazione è il profitto non necessariamente il benessere dei cittadini. Non solo pubblicitari ed esperti di marketing fanno leva da anni su questi modelli di irrazionalità sistematica per promuovere la vendita dei loro prodotti, ma le medesime multinazionali hanno integrato strategicamente tali risultati nei piani di sviluppo dei loro prodotti e servizi. Pensate a quante volte siete stati vittime di queste «trappole mentali» escogitate al solo fine di offrirvi un servizio contro la vostra volontà. Stiamo parlando, per esempio, delle clausole contrattuali imposte per default dalla vostra banca, delle avvertenze illeggibili sulle etichette dei prodotti, o semplicemente delle «offerte» a 9.99 euro. Sono tutte pratiche che mirano a «spingervi» più o meno «gentilmente» in una data direzione, che non è per voi necessariamente conveniente, anzi. Il fenomeno è particolarmente acuto nelle economie dei Paesi emergenti ove contribuisce alla crescente «cola-colonizzazione». Ma tali pratiche, è questa la buona notizia, perlomeno in alcuni Paesi, hanno presumibilmente le ore contate. L'Unione europea appare per esempio intenzionata a ricorrere alle scienze comportamentali per passare al contrattacco, disciplinando cioè l'uso dei «pungoli cognitivi» da parte di quelle industrie che ne fanno un impiego sistemico.
Sotto l'impulso del presidente americano Obama e del primo ministro britannico Cameron, i rispettivi governi, ormai da qualche anno, si ispirano ai risultati delle scienze comportamentali per la progettazione e realizzazione di nuovi interventi pubblici (si vedano gli articoli «L'Europa come spinta gentile» pubblicato il 20 ottobre scorso; «La rivoluzione è una spinta gentile» il 2 dicembre 2012; «Scelte trasparenti se ci sono i manudger» il 31 gennaio 2012). Così, mettendo una faccina triste su una bolletta energetica comparativamente molto dispendiosa, si ha il potenziale di spingere i consumatori verso un minore consumo. In modo analogo, un diverso incorniciamento della presentazione dei prodotti alimentari (carne all'80% magra o al 20% grassa) aumenta le probabilità che venga scelto un cibo più salutare. Ancora, il passaggio da un sistema opt-in, in cui i cittadini compiono deliberatamente una scelta, verso un sistema opt-out, in cui i cittadini sono automaticamente cooptati, può aumentare, per esempio, il numero di organi donati per i trapianti e pertanto salvare più vite.
Dati alla mano, è ormai evidente che, per funzionare nell'attuale contesto di libero mercato, l'azione pubblica non può operare in modo efficace ed efficiente se le autorità di regolamentazione non tengono in considerazione il contesto in cui i cittadini sono chiamati a compiere le loro scelte. Il primo compito di queste forme d'intervento è pertanto quello di disinnescare l'utilizzo strumentale, e spesso abusivo, dei limiti cognitivi a fini commerciali. In questa ottica e in modo del tutto opportuno, l'Unione europea ha recentemente stabilito, nell'ambito della direttiva sui diritti dei consumatore, che se il venditore non ottiene il consenso esplicito del consumatore, ma lo ha semplicemente dedotto utilizzando opzioni di default (che il consumatore deve rifiutare in modo attivo per evitare il pagamento supplementare), il consumatore ha diritto al rimborso di tale pagamento. In questo modo nessun operatore – poniamo una compagnia aerea a basso costo – potrà più imporci, tramite clausole «pre-selezionate», prestazioni supplementari, tipicamente non desiderate, come un'assicurazione.
Una volta disinnescati i «pungoli cognitivi» ingegnati da uno stuolo di ricercatori al servizio dell'industria, è ragionevole aspettarsi ricadute positive, non soltanto sul piano sociale, ma anche economico, da un utilizzo illuminato delle scienze comportamentali in ambito governativo. Poiché le autorità pubbliche appaiono sempre più intenzionate a cambiare il comportamento dei loro cittadini al fine di affrontare i problemi sociali, come i cambiamenti climatici, il consumo eccessivo di alcol, l'obesità e il fumo, esse non dovrebbero solo prendere in considerazione l'impatto sociale, economico e ambientale di tutte le opzioni politiche considerate, ma anche il loro impatto comportamentale. Dopo essersi basati sull'assunto che si possa cambiare il comportamento delle persone attraverso leggi e regolamenti, è giunto il momento che i governi comincino a sviluppare politiche che riflettano meglio come le persone si comportano realmente e non come si suppone si dovrebbero comportare. Ma anche il tentativo di utilizzare appieno il potenziale benigno delle «spinte gentili» per un buon governo sarà vano, se prima non avremo cominciato a disinnescare le trappole opportunamente disseminate nella natura selvaggia del libero mercato dai più astuti predatori.

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