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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2013 alle ore 08:53.

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Dacché vive, il jazz ha messo in vista una sua popolazione di caratteri tra i più singolari. Ancora oggi (per la verità, un po' meno che nei tempi passati, ma è bello rendersene conto) nel suo mondo si può trovare chi è capace di battersi per idee nate dall'arte ma anche dal mondo circostante e relativi problemi. Del resto questa musica stessa è da molti assunta come una sorta di "ideologia" se non, perfino, di "religione". Nessun esempio migliore, per chiarirci, del grande contrabbassista americano Charlie Haden, che ha pure passato i suoi guai ma è ammirato per avere sempre espresso la sua linea in un jazz forte ma raffinato, dove l'impegno politico, nel rievocare vecchi inni e storici combattenti, prende un sapore per lo più nostalgico.
E in Italia? Qui da noi simili tracce possiede il dna del pianista Gaetano Liguori, altro irriducibile ribelle, oggi quanto era nei movimentati (a dir poco) anni tra Sessanta e Settanta. In tale confuso ma vivace panorama molti ricorderanno quel pianista sulla ventina, onnipresente, vezzeggiato, ma risoluto a non barare per piacere al pubblico, come tanti allora facevano, magari mascherando il vuoto dietro la confusa cortina del free jazz (che è invece, se razionale, una cosa seria). Ai brani di sua invenzione Liguori dava titoli evocanti eventi drammatici dell'epoca, legati però a quella che era la qualità inventiva di un giovane colto, avviato, come lui era, a una carriera di docente al Conservatorio Verdi di Milano.
Sono passati per lui quarant'anni e cento esperienze: sul piano musicale (nel jazz ma componendo anche per teatro, cinema e balletto) e, cosa meno scontata, per seguire i propri impulsi d'avventuroso giramondo. Liguori vanta un curriculum ufficiale poderoso, che ora gli è valso pure il solenne e recente "Ambrogino" di Benemerito di Milano, ma sorprendente è il diario "clandestino", quello che probabilmente non ci rivelerà mai per intero: coraggiosi concerti di solidarietà nell'Eritrea in guerra, in Senegal, in Libano, nella Palestina quando era occupata, in Siria (stringendo amicizia con padre Paolo Dall'Oglio, il gesuita sparito circa un anno fa), nel Sud asiatico. E assai di recente a Istanbul ha saputo che Bella ciao, da lui eseguita, era stata l'inno dei giovani ribelli nella famosa piazza Taksim.
Certo oggi il fisico non è più quello di quando Liguori, in ferie dal conservatorio, affrontava la giungla con il machete o la sabbia del Sahara, ma lo spirito non è mutato dai suoi esordi all'Università di Milano occupata. Proprio un suo disco di allora, addirittura il primo tra i numerosi da lui incolonnati fin qui, Liguori ha voluto riproporre in questi giorni. Con i marchi della personale etichetta Bull – nell'occasione associata a Radio Popolare e con distribuzione Ird – riecco dunque quel Cile libero, Cile rosso che il pianista pensò e registrò nel '74 con il suo Idea Trio (Roberto Del Piano al basso elettrico e Filippo Monico alla batteria) sull'impulso della storia. Ed è sorprendente notare come la musica regga i quarant'anni passati dall'incisione, specie nella lunga suite che recava lo stesso titolo del disco e raccontava una tragedia. Ma più con amore per i vinti che con rabbia.
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