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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2013 alle ore 08:52.

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L'ultima apparizione cinematografica di Rossana Podestà, morta a Roma martedì scorso, era stata nel 1984, in Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci, vero e proprio inventario di attrici di più generazioni. Insieme a lei c'erano una ultrasessantenne Alida Valli, Mariangela Melato, Lina Sastri, Stefania Sandrelli, Giulia Boschi poco più che ventenne, e perfino un'adolescente Sandra Ceccarelli. In realtà però, per qualche motivo Podestà, nella sua carriera, si era incontrata poco col cinema d'autore. Nata a Tripoli da genitori liguri nel 1934, ancora studentessa si era fatta notare in un ruolo secondario in Domani è troppo tardi (1951) di Leonide Moguy, drammone parasociologico di gioventù perduta, ed era stata la figlia di Fabrizi in Guardie e ladri. Negli anni dei poveri ma belli e di un Neorealismo che si diceva spregiativamente rosa, era memorabile in Le ragazze di San Frediano (1954) di Zurlini, dove civettava sicura con il playboy proletario Antonio Cifariello. La fama la raggiunse però nella stagione dei primi film in costume girati in Italia, con il ruolo di Nausicaa nell'Ulisse (1953) di Camerini, e in quello della protagonista in Elena di Troia (1956). A lanciarla era stato un film del grande regista messicano Emilio Fernandez, La rete (1953), che rimane una delle sue apparizioni più potenti, «donna del bandito» dall'incedere indimenticabile quando attraversa il villaggio portando l'acqua. In quella stagione in cui il cinema italiano aveva una dimensione internazionale, Podestà si trovò a recitare diverse produzioni hollywoodiane in Italia, magari con star in declino (Santiago con Alan Ladd, Vento di passioni con Esther Williams).
Sposata con Marco Vicario, interpretò qualche peplum non memorabile da lui prodotto, e in generale ebbe un posto di rilievo in quella stagione di kolossal nostrani. Esordendo poi nella regia con Le ore nude (1964), Vicario cercò di lanciarla, senza successo, come tormentata eroina alla Antonioni, assai più sensuale e spogliata di ogni Vitti o Moreau. E l'anno dopo, cambiando completamente registro, la coppia trionfò con Sette uomini d'oro (1965), film sul classico "colpo" che utilizzava tutto l'armamentario più pop e jamesbondistico dell'epoca. E lì, appunto come una fiorente Bond girl nostrana, Podestà è una delle cose che rimangono più impresse del film, in un trionfo di costumi di Gaia Romanini: occhiali e parrucche, tutine di pizzo, volpi bianche, boa di struzzo, cappottoni animalier, e tulle trasparenti, in un deshabillé che il cinema italiano non aveva ancora osato. Nel decennio successivo, spesso per la regia di Vicario, la sua matura bellezza ha arricchito senza sfigurare commedie erotiche di maggiori o minori pretese, a volte con Lando Buzzanca (Homo eroticus, L'uccello migratore) a volte senza (Paolo il caldo, da Brancati). Prima dei cinquant'anni, però si era ritirata dalle scene dopo aver incontrato il celebre esploratore e giornalista Walter Bonatti, con cui ha vissuto gli ultimi trent'anni (lui è morto due anni fa).
Verrebbe da dire che carriere come quella della Podestà siano state un po' sprecate, mancandole il «ruolo di una vita», il regista che cambia il destino di un'attrice. Ma in fondo ci accontentiamo anche che la sua figura così fascinosa, mai banale, di multiforme fotogenia, attraversi le mille facce del cinema italiano, insieme nazionale e internazionale, ambizioso e di genere. Ragazzina del dopoguerra o discinta regina dei barbari, ladra gentildonna glamour o altoborghese alle prese con irsuti uomini del Sud, Rossana Podestà cambiava di decennio in decennio, come cambiava confusamente il nostro cinema, eppure era sempre riconoscibile come erano sempre le nostre dive.
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