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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2013 alle ore 08:52.

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Il tema è forte, scottante, di quelli che non danno scampo alla coscienza. Benché spesso trascurato, è sempre sinistramente attuale, e aiuta forse a capire meglio la nostra storia recente: quali sono, in un Paese funestato da decenni da attentati terroristici e stragi mafiose, i sentimenti di chi resta, dei parenti, delle vittime? Si riesce, prima o poi, a superare quel dolore così diverso, un dolore che non chiede consolazione ma risposte? E quale rapporto potrà mai instaurarsi fra chi ha perso un padre, un marito e chi lo ha ucciso?
Per far fronte a questi interrogativi il regista Carmelo Rifici con l'associazione culturale "Proxima Res" – una fucina di idee, più che una compagnia in senso stretto – ha sviluppato un bel progetto, partito da interviste ai famigliari di persone morte in circostanze violente. I materiali raccolti sono stati rielaborati da quattro autori, Roberto Cavosi, Angela Demattè, Renato Gabrielli e lo stesso Rifici, con una sorta di prologo inventato dagli attori e un'azione gestuale a mo' di epilogo, creata dal curatore dei movimenti scenici, Alessio Maria Romano.
Il testo è formalmente diviso in cinque capitoli, ciascuno con un proprio titolo: la rabbia e la ricerca di giustizia, l'importanza della memoria, il confronto tra i figli, la concessione del perdono, la fine del lutto. Di fatto questo percorso variegato sembra avere soprattutto un unico nucleo portante: realizzato per il festival Teatri del Sacro di Lucca, dove ha debuttato lo scorso giugno, lo spettacolo non ha valenze religiose, ma ruota attorno al concetto quasi dostoevskiano dell'innocenza e della colpa, del pentimento e dell'espiazione.
Nel frammento introduttivo assistiamo al resoconto del conflitto a fuoco in cui rimasero uccisi il brigatista Walter Alasia e due poliziotti, descritto dai genitori del ragazzo con una strana attenzione ai dettagli. Nel primo, intenso capitolo Cavosi tratteggia l'ira biblica della vedova di Pinelli, impegnata in una lotta contro un Dio che la schiaccia: «nessuna donna degna di questo nome potrebbe superare questa lotta senza avere ottenuto giustizia, perché quando non c'è giustizia ti sembra che sia Dio stesso a violentarti, a mangiarti la carne».
Il secondo capitolo, di Gabrielli, sposta il tono verso una nota grottesca di indignazione civile: un sindaco tenta invano di giustificarsi con l'ombra del parente di una vittima per avere aperto una "bio-birreria etica" dove c'era un museo della memoria dedicato al defunto. Il quinto, della Demattè, scandisce in un linguaggio lucido, tagliente gli incontri di una terrorista incarcerata con la figlia dell'uomo cui ha sparato. Lei vorrebbe perdonare, l'altra si nasconde fieramente dietro l'odio, cercando in primo luogo di perdonarsi da se stessa.
Quello che mi ha colpito di più è però il quarto, firmato da Rifici, dove la figlia di un agente ucciso dalla mafia va a far visita al figlio dell'assassino, inseguendo non si sa quali verità. Mi ha colpito perché evoca un'ambiguità di fondo, la difficoltà di stabilire delle rigide distinzioni morali. Il dialogo tra i due è impossibile perché la figlia della vittima si sente naturalmente superiore, e pretende qualcosa dall'altro – che non c'entra nulla – collocandolo automaticamente dalla parte del torto. E costui si difende respingendola in malo modo.
Spoglia, senza svolazzi – salvo forse il balletto finale di quel bianco fantasma femminile, che aggiunge poco – la messinscena rientra a pieno titolo in quella linea del teatro odierno che tende a svuotare gli apparati della rappresentazione per raccontare direttamente la realtà. Dopo un periodo di alti e bassi, Rifici confeziona una delle sue migliori regie, unendo il rigore documentario al respiro della tragedia classica, dove il modello di Antigone si cala nella quotidianità, diventa il parametro assoluto di un lutto che non trova pace con se stesso.
Fra i pregi di Chi resta spicca l'eccellente qualità della recitazione: i cinque interpreti – Francesca Porrini, Licia Granelli, Caterina Carpio, Tindaro Granata, Emiliano Masala – sono tutti bravissimi, e capaci di un raro affiatamento collettivo. Lo spettacolo, visto alla Sala Fontana di Milano, non ha al momento distribuzione, come tutte le proposte impegnative: ma c'è da sperare che si trovino altre occasioni per mostrarlo.
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Chi resta di R. Cavosi, A. Dematté, R. Gabrielli, C. Rifici, regia di C. Rifici. Visto alla sala Fontana di Milano

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