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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2013 alle ore 08:46.

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Non vuole essere confuso con gli eurofobi di destra e di sinistra. Ha votato sì a tutti i referendum europei. È federalista convinto. François Heisbourg, presidente dell'International Institute for Strategic Studies di Ginevra, lo dice chiaro: Fin du rêve Européen, titolo del suo ultimo libro, non è un auspicio, è una constatazione. Quando il sogno dei padri fondatori diventa l'incubo dei popoli europei nella morsa della crisi, bisogna avere il coraggio di abbandonare il «pensiero magico» che ha accompagnato l'euro dalla sua creazione e invertire l'ordine dei fattori: non più whatever it takes per salvare l'euro, ma il salvataggio dell'Unione prima e sopra tutto. Le soluzioni sul tavolo non funzionano: non l'austerità che uccide la crescita, non l'allentamento dei parametri che la Germania non accetterebbe e i mercati punirebbero, non una rottura brutale che sarebbe il caos. Senza un meccanismo di trasferimenti, riconosciuto ed efficace, non è possibile far fronte a choc asimmetrici: lo si sapeva fin dall'inizio ma si pensava che la moneta avrebbe prodotto un'unione più stretta prima che arrivasse uno choc serio. Si pensava che sarebbe bastato imporre a ogni Stato il patto di stabilità, senza considerare il funzionamento della moneta unica come sistema: e abbiamo avuto l'Irlanda e la Spagna. Si pensava che tra Ecofin, Eurogruppo, ancoraggio a una forte banca centrale, si sarebbero trovate le soluzioni: e si finisce per imporre insieme riforme e austerità, uccidendo la crescita. Senza un'unione federale un'unione monetaria non può funzionare: solo che «il passaggio diretto dalla situazione attuale a un euro radicato in un'Europa federale è politicamente pressoché impossibile».
Heisbourg ha dunque ragione nel ricondurre il problema alla sua natura politica: come massa ed energia sono equivalenti nella sintesi relativistica, così «la moneta, energia vitale delle nostre economie, non è di natura intrinsecamente differente dalla politica, materia base della nostra organizzazione collettiva». Il deficit democratico, di cui si parla da un quarto di secolo, non dipende dal modo con cui si eleggono i membri del Consiglio, del Parlamento, della Commissione, bensì dalla mancanza di partiti e dibattito politico a livello federale che vedano una partecipazione attiva dei media e dei cittadini prima, durante e dopo le elezioni: nella crisi economica questo deficit diventa insopportabile. «Federalismo impossibile, istituzioni contestate, popolo invisibile»: non esiste un demos europeo come quello americano (o indiano o brasiliano).
Se si pone al primo posto il salvare l'Unione, «bisogna disaccoppiare le politiche economiche da quelle di bilancio»: mettere in stand by la riduzione dei deficit, dare priorità alle politiche di risanamento strutturale, riformare il welfare, consentire alla Bce di finanziare direttamente le imprese. E poiché sono cose che la Germania non accetterà mai, si prenda un approccio radicale. Se l'Unione è minacciata nella sua esistenza dall'euro, e gli sforzi per salvarlo mettono in pericolo l'Unione, si metta fine all'euro: ogni stato si riappropri della politica monetaria emettendo la propria moneta.
I problemi di esecuzione di un simile "terremoto programmato" sarebbero giganteschi ma inferiori al caos di un evento non gestito. Chi può prendere l'iniziativa di rompere ciò che è stato costruito con un così immenso investimento politico? Catastrofico per la Germania essere vista come sola responsabile; impossibile chiederlo ai Paesi della periferia che hanno fatto tanti sacrifici. Ci vuole un accordo tra Francia e Germania che ponga bruscamente fine all'euro e si faccia garante degli assetti successivi, le libertà di movimento di beni, servizi, persone (dunque Schengen), capitali, una nuova sorta di serpente monetario: è per salvare questi che si è sacrificato l'euro. «Ogni nazione recupererebbe il proprio vantaggio comparato, e si libererebbe degli squilibri finanziari causati dalla creazione di un euro senza governo federale». E dopo un periodo non breve, il ritorno a una moneta unica da parte dei Paesi che accettino le istituzioni federali e i meccanismi di trasferimento che ne assicurino la stabilità. Soprattutto, un esecutivo europeo legittimo e un legislativo eletto a suffragio universale, centro del dibattito democratico e della decisione politica.
Al progetto costruttivista della fondazione dell'euro, Heisbourg contrappone quello altrettanto costruttivista della sua ri-fondazione. Il suo "teorema" sta appeso a un assunto: che imporre durante una recessione il doppio obbiettivo delle riforme strutturali e dell'austerità uccida la crescita. La politica europea parte da un assunto opposto: senza rigore gli stati non adotteranno mai le riforme, e, rigore per rigore, meglio quello arcigno della Commissione che quello cieco dei mercati. Per la Grecia questo ha comportato una caduta del Pil del 25% dal 2008. Reggerebbe il nostro sistema sociale a prove così tremende, mentre quello istituzionale ci offre esempi così sconfortanti? Chi se lo chiede trova, nella lucida eresia di Heisbourg, un'insospettata concretezza.
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François Heisbourg, La fin du
rêve Européen, ediz. Stock, pagg. 194,
€ 18,00

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