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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2013 alle ore 08:49.

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Nel cuore di una Vienna gelida di un freddo pungente arriva il calore mediterraneo della tavolozza fauve. I suoi colori accesi e infuocati di Henri Matisse e i suoi amici, selvaggi come fiere, sono stesi con veemenza sulla novantina di tele della mostra Matisse and the Fauve, all'Accademia Albertina fino al 12 gennaio (tutti i giorni 10-18, mercoledì 10-21, 24 dicembre 10-14; www.albertina.at ).
Colpisce a un primo sguardo la capacità dei curatori, Hainz Widauer del museo di casa e Claudine Grammont, storico dell'arte francese specialista della materia, di mettere perfettamente a fuoco gli anni cruciali 1905-1906: la fulminea maturazione artistica di Matisse e la messa a punto di una sigla formale di tale novità e rottura con il passato da essere indicata come inizio dell'arte moderna, un paio d'anni prima delle Demoiselles d'Avignon di Picasso del 1907.
La maggior parte dei quadri in mostra datano a questi due anni. E ha dell'incredibile, se non fosse nota l'autorevolezza dell'istituzione ospite, a cui pochi possono osano negare un prestito. Anche se ahimè non c'è La donna col cappello di Matisse conservata al Museum of Modern Art di San Francisco, icona fauve che insieme alla Finestra aperta della National Gallery di Washington, presente, è l'opera più famosa della prima apparizione pubblica di quel gruppo di ribelli, al Salon d'Automne parigino del 1905.
La mostra fa rivivere a distanza di poco più di cent'anni lo shock che subirono amatori d'arte e critici quell'anno, quando il critico Louis Vauxcelles diede a quei pittori l'appellativo di «Fauve», fiere selvagge, che di fatto battezzò la nuova avanguardia. Alle tele, acquerelli, sculture e persino ceramiche di Matisse, il più vecchio del gruppo e subito leader, sono affiancate tele di André Derain, il secondo in ordine di fama e importanza, legato a Matisse da un'amicizia profonda come lasciano intendere i reciproci ritratti, esposti l'uno accanto all'altro all'Albertina. Vi sono poi opere dei meno noti Henri Manguin e Albert Marquet, come loro erano usciti dall'atelier di Gustave Moreau, e una bella selezione di lavori di Maurice de Vlaminck, che, per la tendenza a osare, per esempio spremendo direttamente il colore dal tubetto sulla tela, è considerato l'esponente tecnicamente più estremo. A questi cinque che esposero insieme al Salon, si aggiunsero nel 1906 anche George Braque, Othon Friesz e Raul Dufy.
Rivediamo a Vienna alcune delle 39 tele della storica collettiva che lasciò la Parigi benestante a bocca a aperta nella sala VII dell'esposizione al Grand Palais e, contemporaneamente, incuriosì e attrasse a sé i galleristi più audaci. Diverse migliaia di persone alle 3 del pomeriggio di quello storico 18 ottobre inondarono il palazzo per vedere quella selezione di opere che additavano le nuove tendenze dell'arte; 1625 lavori per 397 artisti all'insegna del nuovo, tanto che il salone si annunciava così: «Il rivoluzionario di oggi è il classico di domani».
Lo shock del pubblico di fronte e Matisse e ai suoi amici era dovuto all'impossibilità di riconoscere, in quell'agglomerato folle di colori accesi e contrastati, il soggetto del quadro o la fisionomia della figura: una vera e propria sfida alla diligenza accademica e al realismo insito nell'arte convenzionale; un affronto, una presa in giro che oggi cogliamo come anticamera dell'astrattismo.
Trionfava l'anarchia artistica per alcuni che erano anche in politica di fede anarchica, e lo scandalo preannunciato prima del vernissage fu tale che il presidente francese decise di non presenziare. Oggi il pubblico di tutto il mondo sfila all'Albertina e, pur cogliendo il senso di quella sfida, sente lontano il sapore rivoluzionario di opere che infondono, in realtà, una grande gioia di vivere e una positività accesa. E un calore, che stempera persino la fredda Londra ritratta da Derain in tele che sono tra le più belle in mostra: Big Ben, Il Ponte Waterloo e Il ponte Blackfairs, tutte del 1906/7, dove la città inglese viene rivisitata sotto l'impulso di una pennellata sintetica e di una luce irreale, ma calda. Rappresentano due eccezioni alla solarità pittorica del gruppo Gerogese Rouault e Kees van Dongen, trattati ciascuno con una stanza a sé, come capitoli di un libro scritto in parallelo, che tange senza mai condividere nel profondo le istanze «fauve». Il primo tratta temi di critica sociale estranei agli interessi degli altri, con una tavolozza dominata dal nero e dai bruni: uno shock cromatico antitetico. L'olandese Kees van Dongen, infine, invitato da André Derrain a presenziare nella «gabbia dei selvaggi» del 1905, è presente con le sue opere precoci di questi anni parigini che già preludono a un futuro prossimo come espressionista nel gruppo «Die Brücke», con artisti a lui molto affini anche nello stile, quali i tedeschi Ludwig Kirchner ed Emil Nolde. Con le donne di Van Dongen, sgraziate e maldestramente imbellettate, dagli sguardi vuoti, malinconici e talvolta atterriti, si chiude la mostra viennese.
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Matisse and the Fauve, Vienna, Accademia Albertina fino al 12 gennaio. www.albertina.at

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