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Questo articolo è stato pubblicato il 28 dicembre 2013 alle ore 08:52.

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Ormai è questione di giorni. Se il Governo indonesiano non riuscirà ad applicare qualche correttivo alla nuova, rigidissima legge mineraria, Giakarta il 12 gennaio smetterà di esportare metalli in forma «grezza». Uno stop che rischia di provocare ripercussioni non indifferenti sui mercati e che sta contribuendo ad accrescere la tensione sui prezzi dei non ferrosi. Secondo Goldman Sachs dall'Indonesia dipendono il 18-20% dell'offerta mondiale di nickel, il 8-10% di quella di alluminio (per via della bauxite, di cui è tra i maggiori produttori) e il 3% di quella di rame, che ieri all'Lme è salito oltre 7.400 dollari per tonnellata, ai massimi da 4 mesi.
Le misure che Giakarta si appresta a introdurre sono state progettate nell'ambito della riforma del settore minerario, avviata nel 2009 con lo scopo di aumentare la creazione di valore aggiunto all'interno del Paese. Alcune parti della riforma, già entrate in vigore, hanno frenato l'export di stagno raffinato, di cui l'Indonesia è il primo fornitore. Adesso le conseguenze rischiano di essere di più ampia portata: tra un paio di settimane diventerà infatti impossibile esportare qualunque metallo, se non in concentrati ad alto grado di purezza o in barre già raffinate. Il Paese tuttavia non dispone di un'adeguata capacità di lavorazione, per cui – se le norme non saranno ammorbidite – le minerarie dovranno rallentare le estrazioni, con grave danno per l'intera economia indonesiana: la Banca mondiale teme che le misure provocheranno «un significativo choc negativo per la bilancia commerciale, pari a 6 miliardi di dollari nel 2014». Il deficit salirebbe dal previsto 2,6% al 3,2% del Pil.
Ieri il ministro delle Miniere Jero Wacik ha promesso che entro il 12 gennaio il Governo varerà un regolamento che consentirà di esentare dal divieto di esportazione «le aziende che già lavorano minerali nel Paese». Le dichiarazioni sembrano rivolte soprattutto a rassicurare le statunitensi Freeport McMoRan e Newmont Mining, che attraverso divisioni locali operano due tra più grandi e produttive miniere di rame e oro, non solo dell'Indonesia ma del mondo: Grasberg e Batu Hijau. Entrambe le società hanno paventato la prospettiva di licenziamenti di massa e Freeport in particolare ha stimato che sarebbe costretta a tagliare del 60% l'output, facendo perdere all'Indonesia 1,6 miliardi di $ di introiti. Le due minerarie d'altro canto sostengono che i loro metalli hanno già un buon grado di lavorazione e che a Giakarta basterebbe modificare i requisiti minimi di purezza per l'export per uscire dall'impasse.
Proprio di un'impasse si tratta, perché numerosi ministri hanno già manifestato la volontà di attenuare le regole, ma il Parlamento – a pochi mesi dalle elezioni – si è irrigidito su posizioni nazionaliste, sbarrando la strada ad ogni dilazione o attenuazione dei divieti. Una scorciatoia possibile, secondo gli osservatori, sarebbe a questo punto proprio un regolamento ministeriale, che non deve passare il vaglio dei legislatori. In alternativa dovrebbe muoversi il presidente Susilo Bambang Yudhoyono, che però si avvicina anch'egli a fine mandato.
Di tempo per aggiustare la rotta in ogni caso ne resta ben poco. E il neo direttore generale per le miniere, Sukhyar, ieri ha già diffuso una stima del calo della produzione mineraria indotto dalle nuove regole: per nickel e bauxite è previsto un crollo rispettivamente del 78 e del 97%, per il rame le estrazioni si ridurranno del 17 per cento. Entro il 2016 il Governo spera di riuscire a lavorare tutti i minerali in patria, ha detto Sukhyar, ma su 253 minerarie che avevano promesso di realizzare impianti entro il 2014, solo 178 si sono mosse davvero e di queste appena 25 hanno completato per l'80-100% la costruzione.
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