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Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2013 alle ore 08:52.

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Ma se a Monaco chiederanno ad Antonio Albanese una regia di Don Giovanni l'ambienterà in una birreria? E Carmen, per Parigi, diventerà una formaggiaia? Perché Don Pasquale che ha inaugurato con successo a Verona la stagione del Filarmonico, da Roma – dove la avrebbe voluta Donizetti – veniva traslocata tra le vigne del veronese. Lui cantiniere, con oltre tremila bottiglie in ordine perfetto, nella scena sorprendente di Leila Fteita, e lei, Norina, possidente di una vigna, dove in verità si lavora poco, con più contadini che piante (come impiegare i coristi è sempre un problema) e ci si trastulla leggendo i poemi cavallereschi.
Malatesta svolge la primaria funzione di controllore dei domestici, sempre alticci a sbevazzare di nascosto. Va bene l'omaggio al luogo. Ma se le storie non sono più le stesse, non diventano nemmeno più fresche o originali. Di questo passo finirà che al primo spettacolo rispettoso di libretto, didascalie, interni-esterni, luoghi e orari, grideremo al miracolo. Trovando il tutto estremamente moderno, chiaro, coinvolgente. Anche perché nelle trasposizioni spesso scappano errori. È un errore, ad esempio, anticipare alla seconda scena l'apertura in esterni: Donizetti la riserva strategicamente solo alla fine dell'opera, nel giardino, facendole combaciare una battuta del libretto delle "Nozze" mozartiane e il profumo della scrittura musicale. È un inchino commovente, che qui va perduto.
Così come va perduta la radicale natura diversa tra Don Pasquale, l'attempato che vuol prender moglie, e la giovane prescelta: qui mirano entrambi al vino. Sono uguali. Anzi, non si capisce perché non entrino in società. Mentre Ernesto, che alla fine riesce a impalmarla, sembra abbia ben poco da spartire con lo spirito pratico di lei, salopette corta e stivaloni, quando lui si pavoneggia tra giacche e trench.
Al Filarmonico le compagnie sono ben scelte e di qualità. Tanto che Irina Lungu, una Norina solida e sicura, più sexy però di gambe che di voce, veniva chiamata in extremis a salvare una recita di Traviata alla Scala, con la Damrau malata. (Non sono previsti doppi in questa produzione milanese). Don Pasquale era Simone Alaimo, canto nobile e senza gigionerie, ma fin troppo compassato nelle battute comiche, nelle imprecazioni, nella furia. Qualche sfasamento affiorava inoltre sui tempi più lenti del solito staccati da Omer Meir Wellber. Il giovane direttore si confermava concertatore di pregio, dal bel suono ricco e capace di fare emergere la tavolozza screziata dell'orchestra di Donizetti. Il passo più morbido aiuta il suono della buca. Però su questa scrittura mette a rischio l'appiombo. Mario Cassi restituiva un buon Malatesta e soprattutto Francesco Demuro spiccava come Ernesto, in equilibrio tra l'amoroso e l'eroico. A sipario chiuso, in scena accanto alla tromba, più che a Mazzini guardava a Fellini.
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Don Pasquale, di Donizetti; direttore Omer Meir Wellber, regia di Antonio Albanese; Verona, Teatro Filarmonico

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