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Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2013 alle ore 08:49.

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«O Nada che sei nel Nada, sia Nada il tuo nome, Nada il tuo regno, sia Nada la tua volontà così in Nada come in Nada…». Va avanti in questa forma terribile, dissacrante fino alla blasfemia, il Padre nostro che Hemingway elabora in uno dei suoi 49 racconti (1938), ritmandolo tutto sul "Nada" che in spagnolo vuol dire Nulla, non però quello dei grandi mistici spagnoli. Questa che è l'oratio dominica per eccellenza – cioè la «preghiera del Signore» perché insegnata dal Cristo stesso e conservata nei Vangeli di Matteo (6,9-13) e di Luca (11,2-4) secondo due redazioni differenti ma sostanzialmente coincidenti – è stata da sempre la stella polare del firmamento spirituale del cristianesimo, a tal punto che il primo suo commentatore, lo scrittore cartaginese Tertulliano, alla fine del II secolo, la definiva con qualche eccesso breviarium totius evangelii.
Dante non esiterà a parafrasarla nelle sette terzine di apertura del canto XI del Purgatorio, mettendola in bocca alla lenta processione degli spiriti superbi: «O Padre nostro, che ne' cieli stai…». E l'elenco delle riprese di questa che Tommaso d'Aquino, nella sua Summa Theologiae, definiva l'oratio perfectissima si allungherà attraverso i secoli, non temendo neppure di inciampare nel sarcasmo di Prévert: «Padre nostro che sei nei cieli, restaci!» (così in Parole del 1946), ma allargandosi anche nei commenti più diversi. Così farà Lutero nel suo Padre nostro spiegato ai semplici laici e così farà pure uno dei maggiori teologi del Novecento, il protestante svizzero Karl Barth, l'autore di una monumentale Dogmatica e di un celebre Commento all'Epistola ai Romani.
Appare, infatti, in versione italiana, accompagnata da una guida alla lettura preparata da Fulvio Ferrario, un quaderno di appunti stenografici presi nel corso di tre seminari che Barth dedicò al Padre nostro a Neuchâtel in tre mesi diversi del triennio fra 1947 e il 1949. Il testo ha, quindi, il sapore del parlato: ad esempio, «preghiamo perché sia sollevata la copertura che nasconde adesso tutte le cose, come il tappeto che copre questo tavolo (Barth indica appunto tappeto e tavolo); il tavolo è qui sotto, sentite! (e qui batte sul tavolo). È sufficiente sollevare il tappeto per vederlo…». Prima di percorrere le sette domande del Padre nostro nella resa di Matteo, il teologo lancia il suo sguardo sull'atto di pregare, «azione dell'essere umano» che aderisce e partecipa all'opera di Dio. Per questo, la preghiera «è una delle facce del problema della grazia e della libertà», uno dei temi capitali della teologia luterana, ma anche della teologia tout court.
Il commento è suggestivo perché fa fiorire non solo ogni domanda su cui il Padre nostro si snoda, ma anche si fissa sulle singole parole: ad esempio, molto intensa è l'analisi del "noi" che irrompe nelle ultime quattro invocazioni, rispetto al "tu" delle prime tre. Là eravamo «abbagliati dai temi: il nome, il regno, la volontà di Dio», perciò «la nostra preghiera era come un sospiro». Ora, invece, c'è la nostra umanità dolente e peccatrice, bisognosa e in attesa. Con acutezza l'ebrea Simone Weil, nella sua Attesa di Dio (1950), osservava che quello del Padre nostro è un percorso antitetico rispetto a quello che regge di solito ogni preghiera: essa va dal basso verso l'alto, dall'uomo e dalla sua miseria a Dio e alla sua luce. Nell'oratio dominica, al contrario, si parte dal cielo e si scende fin nel groviglio oscuro del limite e del male («Padre nostro, che sei nei cieli… Liberaci dal male»). Questa è la parabola dell'incarnazione, cioè la vicenda di un Dio che in Cristo scende nell'umanità insediandosi in essa per liberarla dal male.
Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) riserva un vasto commento al Padre nostro (nn. 2579-2865), riassunto poi nel Compendio di questo catechismo (2005). Ebbene, nella lunga genealogia delle letture cattoliche di questa «preghiera che può essere anche l'orazione di tutti i figli di Abramo» (Aimé Solignac), l'ultimo anello bibliografico è stato approntato da Jürgen Werbick, docente nell'università di Münster che – come nel caso di Barth – parte con una riflessione di indole generale di taglio contestuale. Il pregare, infatti, "respiro dell'anima", come lo definiva Kierkegaard, si incastona e vive nel tessuto dell'esistenza cristiana ed è per questo che il commento che l'autore tedesco propone non è meramente esegetico o dogmatico, ma si iscrive nel genere delle "meditazioni teologiche".
La trama su cui si distendono queste riflessioni – che coinvolgono mente e cuore, fede e vita – è sempre quella delle sette invocazioni matteane, scavate in tutte le loro potenzialità tematiche e nelle relative applicazioni per la vita cristiana fino ad approdare all'Amen finale che suggella l'uso liturgico del Padre nostro. È il "sì" finale della fede non tanto a una verità religiosa, quanto a un "chi", a una persona, al Padre divino. Per scoprire la ricchezza degli spunti che offrono le pagine di Werbick, basterebbe leggere come modello proprio questa finale, che presenta un originale contrappunto con la visione antropologica di Nietzsche e quella del romanzo La possibilità di un'isola (Bompiani, 2005) dello scrittore francese Michel Houellebecq col suo gioco di specchi che ruota attorno all'utopia frustrata del neo-uomo.
È, dunque, un itinerario di lettura aperto a tutti, anche ai non credenti che, però, conservano ancora nella conchiglia della memoria l'eco di questa preghiera imparata da fanciulli e poi sepolta sotto la polvere del l'esistenza e forse anche dell'incredulità, quando essi hanno sostituito al Padre divino l'Atena della ragione "razionalistica" o il Moloch della tecnologia autosufficiente o più banalmente l'indifferenza e il realismo superficiale. Eppure il Dio cristiano continua a ripetere all'umanità il soliloquio che Charles Péguy, nel suo mirabile poemetto Il mistero dei Santi Innocenti (1912) gli ha messo in bocca: «Io sono il loro giudice. Ma sono soprattutto il loro padre. Colui che è padre è soprattutto padre. Colui che è stato una volta padre non può essere che padre. Essi sono fratelli del mio figlio. Sono figli miei, io sono il loro padre».

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