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Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2013 alle ore 08:47.

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Il 2013è il centenario della Fondazione della psicopatologia come scienza autonoma. Nel 1913 Karl Jaspers pubblica il suo Opus magnum – la Psicopatologia Generale – in risposta alle sfide filosofiche e cliniche poste in un momento storico (non molto diverso dal nostro) caratterizzato dalla rapida espansione delle neuroscienze. L'idea che ispira questo libro è molto semplice: fare ordine nel caos dei fenomeni psichici abnormi attraverso la loro rigorosa descrizione, definizione e classificazione. Inoltre, mettere a disposizione del clinico un metodo valido e affidabile per cogliere e comprendere il senso della soggettività umana abnorme.
Dopo un secolo, molti dei nodi concettuali affrontati da Jaspers sono ancora irrisolti, e la sintesi da lui fornita rimane il terreno più solido su cui fondare la discussione. Controversie metodologiche, ad esempio i limiti della comprensibilità delle esperienze psicotiche, e cliniche, come la definizione della coscienza di sé e dei suoi disturbi, sono la frontiera della ricerca psicopatologica del XXI secolo. La rivoluzione di velluto innescata alla fine del millennio dalla rinascita della Filosofia della Psichiatria ha dato nuova vitalità al progetto jaspersiano della Fondazione della psichiatria sulla psicopatologia, che rappresenta – assieme alle Neuroscienze – la scienza di base della Psichiatria e la koiné, cioè la lingua comune capace di mettere in comunicazione psichiatri di diversi orientamenti teorici, ciascuno parlante e pensante con un proprio gergo e dialetto.
La vita di Jaspers nelle vesti del clinico fu simile a una meteora, breve e intensamente brillante. Nel gennaio 1908 cominciò a lavorare come specializzando. Già nel luglio 1911 Julius Springer, tra i più importanti editori scientifici del suo tempo, gli commissiona un manuale di Psichiatria per studenti di medicina, medici e psicologi. Era un ventottenne assistente volontario che aveva passato poco più di tre anni presso la Clinica Psichiatrica di Heidelberg, ma evidentemente era già abbastanza esperto – o istituzionalmente naïf – da essere consapevole che la Psichiatria aveva un improrogabile bisogno di chiarificazione sistematica dei propri strumenti e concetti.
Già noto per il suo coraggioso atteggiamento critico verso il "nichilismo terapeutico" praticato nella Clinica di Heidelberg, lavorava intellettualmente alla rinascita della psichiatria fondata sulla relazione medico-paziente affermando la dignità e accettando i limiti di entrambi i partner sulla base di ciò che, da filosofo, avrebbe in seguito chiamato "comunicazione esistenziale". Quando nel luglio 1913 la Psicopatologia Generale fu data alle stampe la sua carriera di clinico era già virtualmente terminata, ma la sua influenza sulla psichiatria sarebbe durata ancora a lungo. Dopo un secolo dalla pubblicazione di questo libro, cosa possono ancora imparare i clinici della salute mentale da questo giovane inesperto il quale, a causa dei suoi gravi problemi polmonari, non era neanche in grado di completare il rituale del "giro" della visita dei pazienti? Può essere preso ad esempio da giovani clinici in carriera un uomo che fu scoraggiato dal suo capo (il celebre neurologo Franz Nissl, che Jaspers peraltro ammirava) a proseguire la carriera di psichiatra, e che fece di questo fiasco l'opportunità per frequentare liberamente i seminari di filosofia, che avrebbero contribuito a sviluppare una prospettiva tanto originale nella sua ricerca?
Cosa possono condividere con quest'uomo così grato a Esculapio – e al suo discepolo Albert Fraenkel, il medico che con tanto tatto lo informò e lo curò della sua malattia – da decidere di dedicarsi alla "ricerca sul corpo umano come fondamento di ogni altra conoscenza sulla psiche umana", ma che al contempo affermava che il futuro della medicina era riposto nel legame tra «la filosofia e la scienza»?
E, soprattutto, possiamo aspettarci che i giovani clinici e i pazienti alla legittima ricerca di certezze diagnostiche e terapeutiche, e soprattutto i primi così affamati di conoscenze manualizzate, protocolli terapeutici, interviste strutturate, criteri diagnostici, tecniche basate sull'evidenza, eccetera siano così longanimi da prestare ascolto ad un tale ibrido medico-filosofo che con ostinazione sosteneva la necessità di essere tutti consapevoli – camici e pigiami – dei limiti della conoscenza e della tecnica, in rivolta contro ogni tipo di dogmatismo e oggettivazione? Come possono coloro che sono alla ricerca di "conoscenze certe" essere soddisfatti di un tipo di conoscenza che concepisce se stessa come un "compito interminabile" che ha luogo nel faccia-a-faccia, qui-e-ora dell'incontro tra due persone?
Come possono accontentarsi di un maestro convinto che l'essenza della conoscenza non è il possesso, bensì la ricerca della verità, rigettando al tempo stesso con eguale convinzione ogni forma di nichilismo epistemologico e di misticismo? L'insegnamento fondamentale di Jaspers può essere condensato in una frase: «Le domande sono più importanti delle risposte, e ogni risposta deve diventare una nuova domanda». Ci sarà qualche intrepido collega che, sulla base di questa filosofia on-the-road, spogliandosi di ogni presunzione ma non abbandonando il sentiero sicuro della ricerca fondata sulla ragione, seguirà il sibillino motto jaspersiano: «Il trattamento medico deve fondarsi sulla vita non compresa»?
Tenendo presente tutto questo, risulta comprensibile perché la psichiatria abbia bisogno più che mai della psicopatologia. Questa scienza nasce con lo stesso mandato della filosofia dell'esistenza: fornire le parole per dire l'esistenza umana e le sue ferite. La psicopatologia è un discorso (logos) attorno alla sofferenza (pathos) che turba la mente umana (psyche). Il suo mandato principale è provvedere ai concetti per parlare e dar senso dalla vulnerabilità umana; per cogliere ciò che è umano in quei fenomeni che vengono tacciati di disumanità perché eccentrici rispetto alla logica e al senso comune, e dunque apparentemente incomprensibili, ma appartenenti invece a specifiche province di senso. Si è spesso equivocato, credendo che la psicopatologia, stante la sua radice filosofica, proponga un discorso anti-scientifico. Non è affatto così. Non c'è contrapposizione tra il sapere della scienza e quello della psicopatologia. Non sono in dubbio il rigore metodologico e l'attenzione ai fatti propri della ragione scientifica. Piuttosto, la domanda è di quale scienza abbia bisogno la psichiatria, e su questo la risposta è chiara: di una scienza della soggettività umana, i cui metodi non possono coincidere con quelli delle scienze naturali. La psicopatologia promuove una forma di attenzione radicale ai fatti della soggettività umana. Insegna a "dare la parola" alla persona sofferente; ad accordare al discorso dell'altro un'attenzione estrema, scevra di teoria, perché ogni visione dell'Uomo fa perdere di vista l'uomo reale che ho di fronte. L'attenzione, come scrive Cristina Campo, «è la forma più pura di responsabilità poiché ogni errore umano è, in essenza, disattenzione». L'attenzione che la psicopatologia insegna è la capacità di attendere, di non saltare alle conclusioni, di non sovrascrivere l'esperienza personale dell'altro con una qualsivoglia teoria. Questa attenzione è l'accettazione fervente e impavida della realtà dell'altro. È grazie a questa capacità di attenzione che, forse, potrà essere soddisfatta l'attesa di cui parla Paul Valery: «Ogni essere umano grida in silenzio per essere letto altrimenti».

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