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Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2013 alle ore 08:51.

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Una storia bellissima, splendidamente raccontata, per capire di che pasta fossero fatti gli imprenditori che hanno costruito la storia della grande impresa italiana. Giovanni Enriques è stato al centro dell'industria italiana, cominciando dal l'Olivetti e finendo con la Zanichelli, dal periodo prebellico agli anni Ottanta. Un uomo eccezionale, certo e Sandro Gerbi ricostruisce benissimo la scena complessiva intorno a questo grande protagonista e ci aiuta a capire che egli interpretava al meglio le doti straordinarie di un'intera classe dirigente i cui valori fondamentali erano la cultura e l'impegno civile.
La prima cosa che colpisce della biografia di Enriques è la vastità dei suoi interessi e delle sue frequentazioni: i suoi amici più cari fin dagli anni giovanili vanno dai fisici romani di via Panisperna, agli intellettuali torinesi di Lessico famigliare, ai banchieri-umanisti della Comit. Con una formazione di tal spessore non c'è da meravigliarsi che, arrivato alla Olivetti prima della guerra, egli fosse nelle migliori condizioni per applicare le idee di Camillo e di Adriano, portatori, sulle orme delle simpatie socialiste del primo, di una visione etica dell'economia capitalistica e delle relazioni industriali, fatta innanzitutto di massima attenzione al benessere di tutti i dipendenti.
La severa formazione imponeva senso del dovere e capacità d'azione. È Enriques (insieme a Gino Martinoli e Giuseppe Pero) che prende il timone dell'Olivetti dopo l'8 settembre, dopo la morte di Camillo e la fuga di Adriano in Svizzera per sottrarsi al sicuro arresto. Ma anche Giovanni era ebreo e la sua unica protezione era un falso certificato di "arianizzazione", che ovviamente lo esponeva a ulteriori pericoli in caso di scoperta.
I valori che l'azienda aveva sostenuto si rivelarono decisivi: il sodalizio fra manager e operai fu totale, nello sforzo comune di proteggere la produzione e di sostenere i gruppi partigiani; l'intera comunità si strinse attorno alla fabbrica, creando un clima di appoggio e sostegno morale a coloro che venivano colpiti, ebrei o no, dal regime. Enriques lascerà l'Olivetti, alla fine del 1952, anche per gli inevitabili contrasti con una personalità molto forte come Adriano. Nel suo periodo, l'Olivetti passa da 800 a 12 mila dipendenti e diventa leader mondiale in termini di fatturato e di qualità dei prodotti (dalla Divisumma, alla leggendaria Lettera 22 esposta al Museum of Modern Art). L'azienda era ancora nella fase ascendente della sua vita: negli anni Settanta, superata la prima crisi generazionale sarà ancora in grado di produrre il primo vero personal computer (la Programma 101) ben prima degli esperimenti di Bill Gates e Steve Jobs.
Enriques impersonava benissimo lo spirito olivettiano, una visione "umanistica", nel senso rinascimentale, dell'azienda, fondata sulla valorizzazione del lavoro, l'attenzione alla qualità della vita dei dipendenti, la ricerca e l'innovazione, l'estetica dei prodotti. E continuerà a sostenere la stessa filosofia nelle sue molteplici esperienze successive, che lo porteranno (spesso contemporaneamente) a lanciare la prima vera grande business school italiana (l'Ipsoa, su impulso di Valletta e Adriano Olivetti), a essere importante consulente dell'Imi (propugnando fra l'altro un progetto di valorizzazione del turismo meridionale, visto come l'industria dell'avvenire) e infine a occuparsi delle aziende di famiglia: le penne Aurora, l'editoriale AZ (annuari ed enciclopedie), la casa editrice Zanichelli.
Enriques era uno dei massimi interpreti di una comunità di intellettuali portatrice di un progetto di società avanzata che si ritrova in ogni grande successo italiano del dopoguerra, dal varo della Costituzione, alla ripresa della produzione, ai mille successi imprenditoriali del miracolo economico.
Quella classe dirigente fu poi sconfitta nella battaglia successiva, ancora più complessa, necessaria per varare le riforme adeguate a un capitalismo maturo. L'immobilismo politico, il decadimento dei valori morali, la miopia delle nuove classi dirigenti fecero perdere al paese il grande impulso del primo dopoguerra, dando inizio al declino della grande impresa italiana. La storia di Giovanni Enriques è quindi anche la storia di questa decadenza: basti ricordare che i grandi nomi che hanno caratterizzato la sua vita o sono estinti (Olivetti, Comit) o sopravvivono in forme assolutamente diverse e marginali (Imi). Non a caso, la bandiera continua a sventolare solo sull'impresa da sempre gestita in modo familiare, ancorché moderno (Zanichelli). Ma è evidente che non può essere questo il punto di leva perché un paese possa mantenere competitività nei mercati globali e tanto meno realizzare gli ideali di trasformazione sociale di cui gli uomini come Enriques erano portatori.
Oggi è di moda recitare il mantra delle «riforme di cui il paese ha bisogno»; leggere questo libro aiuta a capire che occorre partire dai valori morali e culturali dei riformisti di allora e capire perché sono stati sconfitti sistematicamente da cinquant'anni a questa parte.
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Sandro Gerbi, Giovanni Enriques. Dalla Olivetti alla Zanichelli, Hoepli, Milano, pagg. 288, € 18,00

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