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Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2013 alle ore 08:50.
Chi è l'uomo perfetto, quali sono le sue qualità, lungo quale itinerario spirituale le ha conquistate?
Ogni religione risponde a queste domande, e le risposte plasmano un'immagine che diviene modello al quale aspirare individualmente e che orienta dall'interno il percorso interiore e le espressioni culturali della civiltà che le ha scelte. Come immagine dell'uomo perfetto, il cristianesimo ha adottato evidentemente quella del Cristo; il buddhismo, nel suo plurimillenario sviluppo, ne ha messe a fuoco (almeno) due, non contrastanti, ma certo sensibilmente diverse.
La più antica è l'immagine dell'arhat, il «venerabile»: determinato a liberare se stesso dalla sofferenza e dal ciclo doloroso delle rinascite, l'arhat è colui che rinuncia al mondo, prende i voti monastici – povertà assoluta, non-violenza, castità – e accetta le regole severissime della comunità perseguendo un ideale in realtà solitario di perfezionamento spirituale. Nessuno lo può aiutare, infatti, nel suo percorso se non con l'esempio del proprio perfezionamento, di nessuno egli si preoccupa perché nulla in realtà, se non le risorse incrementate dal processo della conoscenza, può soccorrere chi l'ha intrapreso nel l'arduo cammino verso il Risveglio.
Un modello altissimo, esclusivo, autoreferenziale. Per effetto forse di una sensazione di isolamento e di gelo, a un certo momento della storia del buddhismo, diciamo a cavallo dell'era volgare, a questo modello di perfezione ne subentra un altro, destinato ad alimentare in ogni loro aspetto non solo l'India, terra di origine del buddhismo, ma soprattutto le grandi civiltà dell'Asia orientale… Il termine che designa questo "nuovo" uomo perfetto è Bodhisattva, «Colui che ha per essenza il Risveglio», il Buddha a venire; si tratta di chi, pur avendo maturato meriti senza fine, in grado di assicurargli la quiete definitiva dell'estinzione, del nirvana, decide invece di rimanere (sia pure indenne) nel ciclo delle rinascite per aiutare le creature sofferenti. Questo essere colmo di compassione si prepara ad adempiere alla propria missione con un processo di perfezionamento che dura, nell'immaginario buddhista, di vita in vita migliaia di ere cosmiche e che lo carica di "perfezioni", paramita in sanscrito. Fra le principali, che formano un vero e proprio curriculum codificato, è la perfezione della "generosità", dana, letteralmente "dono".
L'India, soprattutto sul piano spirituale, ma certo anche su quello sociale, non predilige l'individuo ma la categoria, non il protagonista concreto, storico, ma il paradigma. Ne deriva l'importanza incalcolabile del mito, della leggenda, della fiaba; così la maggior parte dei Bodhisattva sono esseri mitici, che infaticabilmente soccorrono, su piani diversi – dalla salvaguardia nei pericoli, alla salute, alla cultura – le creature sofferenti; sono esseri soprannaturali, sontuosi, meravigliosi, dipinti a colori incantevoli e capaci di incarnare il sacro nei suoi aspetti di più suggestiva fascinazione.
Siccome l'immagine di questi esseri è stata proiettata all'indietro, una classe particolare, importantissima, di Bodhisattva è costituita dal Buddha storico nelle sue nascite anteriori, i Jataka, precedenti a quella del principe Gautama Siddhartha destinato a conquistare il Risveglio. Lungo il corso delle ere cosmiche, egli è nato dapprima in forme animali – pesce, cervo, elefante… –, sempre caratterizzate dal l'aspirazione sovrumana a beneficare gli altri e a sacrificarsi per loro. L'ultima di queste incarnazioni prima che il futuro Buddha rinasca appunto come Siddhartha è quella di Vessantara, principe dei Sivi, evocata dall'ultimo, famosissimo Jataka che possiamo assaporare in italiano nella traduzione attuale di Paola M. Rossi; il libro, sempre da parte della curatrice, è corredato da un'introduzione molto ricca e articolata, capace di illuminare tutti gli aspetti dello straordinario testo e del contesto storico-culturale, fra buddhismo e induismo, dove opere come questa hanno visto la luce.
La perfezione incarnata da Vessantara è, fin dalla nascita, quella della generosità; la sua vicenda la illustra in maniera favolosa, iperbolica, intinta in un'atmosfera incantata, ambientata nel non-luogo della fiaba – o, volendo, nel non-luogo e non-tempo delle più profonde esperienze interiori. Così il bimbo, nasce «senza impurità», con gli occhi già spalancati, manifestando il desiderio di fare un dono; e la madre depone «nella mano tesa una borsa con mille monete d'oro» che sono immediatamente elargite. Come la nascita di Siddhartha sarà preannunciata dall'elefante bianco a sei zanne sognato dalla madre, analogamente la nascita di Vessantara è benedetta dal dono di un cucciolo d'elefante, tutto bianco, offerto al bimbo da un'elefantessa alata: misterioso alter ego del neonato, simbolo – come si vedrà nel corso della storia – del suo potere temporale e del suo progresso spirituale. A quattro o cinque anni, Vessantara riceve dal padre un gioiello del valore di centomila pezzi d'oro (quasi ipnotica è nel testo la reiterazione delle iperboli numeriche!), del quale fa immediato dono alle balie; identica la sorte di un dono paterno successivo. Ben presto, però, a otto anni, il bambino riflette fra sé e sé sulla propria esigenza di donare non qualcosa di esteriore, ma quanto è parte di lui stesso. Inizia idealmente così l'ascesa che lo porterà a cedere, nello scandalo generale, l'elefante portafortuna (anche del regno), i figli, la sposa, vivendo in povertà nella foresta… e soddisfacendo in questo modo al proprio ideale di perfezione, fino ad adempiersi e a ricostituire così, più completa e piena, la felicità della sua famiglia, del popolo, dello stato.