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Questo articolo è stato pubblicato il 04 gennaio 2014 alle ore 08:40.

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di Riccardo Sorrentino Oggi la contestano in tanti. L'Unione europea ha però seguito negli ultimi 20 anni una "grande strategia" di successo: la politica dell'allargamento, adottata dopo la caduta del vecchio mondo della cortina di ferro, che ha permesso di creare un'area stabile, di "esportare la democrazia" con risultati migliori di quelli americani, e di ridare una prospettiva ai paesi della penisola balcanica, dove pure è stato necessario combattere una guerra, strappandola così all'influenza della Russia, che dell'Unione resta un importante avversario.
Quanto sta accadendo in Ucraina, dove il confronto tra Mosca e Bruxelles è arrivato nelle piazze, dà il senso del valore dell'allargamento. Non a caso, in coda per aderire ci sono ancora la Macedonia e la Serbia (e forse l'Islanda), mentre Montenegro e Turchia stanno negoziando e l'Albania, la Bosnia e il Kosovo potrebbero presto candidarsi. La bocciatura del Marocco, nell'87, ha probabilmente impedito ad altri paesi nordafricani di farsi avanti; ma l'"Unione per il mediterraneo" e il "Partenariato orientale" verso alcuni stati dell'ex Unione sovietica, completano la strategia di espansione dell'Unione.
L'allargamento non è stato solo politico. Anche l'Unione monetaria (Uem), nata nel '99, si è allargata, passando da 11 a 18 membri. L'anno prossimo sarà la volta del 19°, la Lituania. Dopo, però, c'è il vuoto. Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania e persino la Svezia sono obbligate ad aderire all'euro, ma non mostrano alcuna fretta. Anzi.
È chiaro perché. L'euro - progetto geopolitico prima che geoeconomico – ha mostrato tutti i suoi limiti. Le migrazioni interne di lavoratori - necessarie in ogni caso in cui i cambi sono rigidi - sono costose sia per le barriere linguistiche che per quelle istituzionali (per esempio in termini previdenziali). Il coordinamento delle politiche fiscali non è stato sufficiente e questo ha creato molte tensioni tra gli stati. Una Banca centrale con le mani parzialmente legate e molto più preoccupata dell'inflazione (futura) che della disinflazione (presente) non riesce davvero a contrastare la recessione. La Uem insomma è «cominciata come una tigre e finita come uno scendiletto», come ha scritto Björn Hacker del Friedrich Ebert Stiftung.
Il risultato è che a molti cittadini i costi - in termini di opportunità perdute: svalutazione, aggressive politiche fiscali, politiche industriali più incisive - appaiono superiori ai vantaggi. Al punto che le difficoltà dell'euro, complice l'arrivo delle elezioni europee, stanno minando il consenso alla stessa Unione e alla sua "grande strategia". In tutti i paesi, a cominciare dalla Francia del Front national, sono vivaci le formazioni euroscettiche o antieuropee; e in Gran Bretagna è stato promesso un referendum per il 2017. L'intera costruzione europea è sottoposta a grandi tensioni.
È il segno che la Ue e la Uem sono in una crisi di crescita. Le attuali trattative sull'Unione bancaria sono importanti, ma non risolutive. Non è solo questione di élites e di istituzioni. Allargandosi, l'Unione (politica e monetaria) è giunta al punto di dover fare un salto per poter andare avanti; e questo richiede che sia rinnovato quel "patto", per così dire, con i cittadini che finora ha sostenuto ogni passo dell'intero progetto.
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