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Questo articolo è stato pubblicato il 04 gennaio 2014 alle ore 08:40.

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«Ho deciso di escludermi dalla candidatura a primo ministro», ha annunciato ieri Manmohan Singh col suo solito distaccato understatement (tre conferenze stampa in dieci anni di governo). Come tutti gli uomini che considerano il potere un servizio pubblico, a 81 anni, quando a maggio l'India voterà di nuovo e anche se il suo Partito del Congresso dovesse vincere ancora, Singh si ritirerà.
Governatore della Banca centrale, responsabile della Commissione del Piano; ministro delle Finanze, degli Esteri, delle Ferrovie (sulle quali ogni giorno viaggiano 100 milioni d'indiani); premier dal 2004 al posto della riluttante Sonia Gandhi. Manmohan Singh è la storia dell' "India Splendente", il meraviglioso e inaspettato sviluppo del Subcontinente. Nel 1991, dopo l'assassinio di Rajiv Gandhi e quando Narasimha Rao lo chiamò alle Finanze, l'India aveva riserve per qualche settimana d'importazioni; nel '96, quando Singh lasciò il dicastero al suo braccio destro Palaniappan Chidambaram, il Paese incominciava ad avere il passo di una potenza economica.
In prospettiva Singh può essere criticato per eccessiva cautela, per non aver avuto il coraggio di passare alla seconda generazione delle riforme: banche, trasporti, energia, commercio. Ma quando le iniziò aveva contro gran parte del Congress e del suo elettorato. Ostili erano il "License Raj", il gigantesco impero burocratico della carta bollata; il Club di Bombay, un insieme d'influenti imprenditori privati, timorosi che la globalizzazione implicita nelle riforme li avrebbe esposti ai venti della concorrenza che credevano insostenibile. Oggi quegli stessi industriali rilevano imprese ovunque nel mondo.
Che Manmohan Singh si sarebbe rifiutato di governare l'India per un altro mandato, era più che previsto. Non lo avrebbe fatto nemmeno se avesse avuto la certezza di una nuova vittoria del Congress. Il problema è che probabilmente il partito dal quale è nata l'India indipendente perderà. Nella parsimoniosa conferenza stampa di ieri a Delhi, Singh ha definito «credenziali eccellenti» quelle che Rahul Gandhi possiede per portare il Congress alla vittoria elettorale e governare l'India. È stato eccessivamente ottimista.
Il giovane Rahul, 43 anni, è pronipote di Jawaharlal Nehru, nipote di Indira Gandhi, figlio di Rajiv e Sonia. Le credenziali sono queste e non sono da poco. Ma da 80 anni l'India ama e detesta a intermittenza la dinastia Nehru-Gandhi: vuole uno di loro al potere per poi rivendicarne la caduta. Ora è uno di quei momenti negativi per la famiglia. Inoltre la dinastia che ha fondato il Congress e l'India contemporanea è divisa in due principali caratteri umani: quello che vive e muore per il potere, come erano Nehru e sua figlia Indira; e quello che lo accetta solo come karma, un destino scritto da altri, al quale non si può sfuggire. Così era Rajiv Gandhi, figlio di Indira, ed è sua moglie Sonia. E così è Rahul che non scalda le folle, che due anni fa ha rovinosamente perso le elezioni dell'Uttar Pradesh, lo Stato di famiglia. Se a quattro mesi dal voto la sua candidatura non è ancora stata annunciata, è perché sia il partito che lui stesso sono pieni di dubbi.
Intanto il Bjp, la destra nazionalista e liberale hindu, ha già i motori al massimo dei giri. Il partito si sente defraudato. La definizione di "India Splendente" era in realtà sua: il Bjp al governo aveva continuato ed esteso le riforme avviate da Singh, ottenendo successi anche maggiori. Lo slogan "India Shining" fu coniato per sottolineare un ottimismo economico e accompagnare una marcia elettorale trionfale. Ma nel 2004 sorprendentemente vinse Sonia (era una fase favorevole per la dinastia) che poi passò la guida del governo a Singh.
Ora il Bjp ha un nuovo leader: Narenda Modi, 61 anni, da 13 chief minister - cioè premier - del Gujarat. Lo stato ha il più alto tasso di crescita, di investimenti internazionali ma non di sviluppo sociale dell'India. Tuttavia, come il dottor Jekyll, il riformatore Modi ha una seconda personalità. Quella xenofoba anti-musulmana che nel 2002 lo portò ad avere gravi responsabilità in un pogrom inter-religioso nel quale morirono più di mille indiani. Per questo a Modi è ancora vietato l'ingresso negli Stati Uniti.
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