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Questo articolo è stato pubblicato il 05 gennaio 2014 alle ore 08:49.
Un'interpretazione di cosa sia stato l'intervento pubblico nella storia unitaria non può ignorare quanto l'integrazione dell'Italia nell'economia globale sia parte di una convergenza che nei primi anni Novanta del XX secolo ha segnato contemporaneamente lo zenith e l'inizio del declino. In quel momento si colsero gli ultimi frutti dell'onda lunga di un cinquantennio iniziato con la Prima guerra mondiale e chiuso intorno alla metà degli anni Sessanta. Un cinquantennio che cambiò il volto di un Paese che conobbe – attraverso due guerre mondiali e la grande crisi – la costruzione di un apparato industriale e finanziario pubblico competitivo. Una stagione coincidente con l'ascesa del capitalismo manageriale, che dopo la Depressione raggiunse la sua più ampia propagazione.
Le classi dirigenti che guidarono questa trasformazione costituivano un'agguerrita élite passata alla storia come "beneduciani" dal nome del fondatore dell'Iri, Alberto Beneduce. I volumi Protagonisti dell'intervento pubblico in Italia, oggi ristampati in versione ampliata rispetto all'edizione del 1984, rappresentano il primo – e ancora insuperato – tentativo di ricognizione generale di quella generazione e di quella dei suoi precursori e ispiratori.
Nell'introduzione del volume, Luciano Cafagna ricorda che fu Raffaele Mattioli a promuovere un progetto editoriale per sua natura incompleto ma che ambiva a rendere evidente il ruolo storico di un gruppo dirigente che all'inizio degli anni Settanta assisteva al proprio tramonto. E, in effetti, attraverso i trentatré ritratti originariamente pubblicati su «Economia pubblica», ci avviciniamo a personaggi come lo stesso Mattioli, Oscar Sinigaglia, Giuseppe Cenzato, Donato Menichella, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni o Enrico Mattei, nelle cui biografie si legge un'epoca che non si capirebbe senza i suoi protagonisti. Formatisi in età giolittiana, imbevuti di cultura risorgimentale e nazionalista, non di rado volontari nella Prima guerra mondiale, avevano cominciato la loro carriera durante il fascismo, per finirla intorno alla metà degli anni Sessanta.
Una generazione, dunque, cui si deve il rafforzamento di un complesso industriale e finanziario in grado di stabilizzare il Paese e di offrirgli strumenti di espansione indipendenti dai meccanismi concorrenziali del mercato interno e di quello internazionale. Ciò implicava forme intensive di finanziamento e accumulazione, speciali legami fra il capitale e le decisioni d'investimento industriale, e l'impegno di influenzare le politiche economiche dello Stato. Una generazione che seppe governare il mercato praticando forzature che permettessero di intensificare l'accumulazione in settori dove essa non avrebbe potuto procedere in forme soddisfacenti; una generazione che favorì l'affermarsi di imprese pubbliche dalle dimensioni adeguate per partecipare allo sfruttamento delle economie di scala.
Nel cinquantennio in cui i protagonisti calcarono la scena, ebbero luogo non solo l'espansione della matrice industriale, il suo consolidamento e l'inserimento del l'Italia nel gruppo di testa delle nazioni maggiormente sviluppate, ma anche la progressiva integrazione del Paese nel sistema capitalistico euroatlantico favorito dall'ascesa degli Stati Uniti come Paese leader del capitalismo occidentale.
Molto si è già discusso su quanto è venuto dopo, su come l'innesto di una nuova classe dirigente abbia prima minato e poi fatto saltare i confini dell'azione in cui agirono i protagonisti. Di certo il cosiddetto "sistema Beneduce", all'interno del quale l'economia italiana visse fino all'epoca delle privatizzazioni, possedeva una flessibilità che lo rese utile anche nel momento che segnò l'uscita di scena di chi aveva governato l'intreccio fra impresa pubblica, finanza pubblica e impresa privata. Il crepuscolo della generazione dei protagonisti coincise con due fenomeni di grande portata: la fine della disponibilità di manodopera a bassissimo costo e lo spalancarsi delle porte all'ingerenza politica, il nemico che Pasquale Saraceno paventava per la tenuta del modello Iri. La crescita dell'influenza del ministero delle Partecipazioni statali e le nomine politiche alla guida delle banche pubbliche, trasformate in vassalli delle consorterie politiche che rivendicavano un feudo industriale o finanziario, finirono per svuotare il potenziale di crescita del sistema di accumulazione forzata governato dai protagonisti dell'intervento pubblico dell'età aurea. Tuttavia il complesso di cause che vide il tramonto di quel modello e l'affermarsi di una rapacità politica inappagabile e di un'inaudita diffusione del clientelismo non spiega da solo anche il tramonto di un'élite e l'incapacità del Paese di produrre una classe dirigente all'altezza della sua posizione internazionale. È qualcosa che ha a che vedere con la declinazione tutta italiana della definizione di "modernità", all'interno della quale la religione civile professata dalla generazione "beneduciana" ha finito per essere col tempo quasi irrisa o considerata portatrice di una retorica obsoleta.
A quel sistema, certo non privo di difetti, travolto dalla fragilità dei suoi istituti nel momento in cui la nuova collocazione internazionale dell'economia italiana esigeva un deciso impegno riformatore, si è sostituita una clamorosa assenza di strategie adeguate a tutelare l'interesse generale. A un disegno d'insieme condiviso di là dalle appartenenze politiche, si è col tempo sostituito un affastellamento di interventi improvvisati che rispondono a una logica emergenziale e non a un programma coerente con nuovi vincoli internazionali. Si è così rovinati verso un percorso confuso e privo di latitudine politica, incapace di affrontare anche i problemi più macroscopici, o ci si è astutamente schermati dietro obiettivi-vessillo il cui raggiungimento è stato di per sé considerato un successo. L'attuale classe dirigente appare distante anni luce da quella descritta in questi volumi: invecchiata e in gran parte priva di quelle capacità di guida, competenze, responsabilità pubblica e senso della legalità che contribuirono a gettare le basi dell'aggancio al ciclo internazionale, senza il quale poco si capirebbe dello sviluppo dell'economia e della società italiana nel XX secolo.








