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Questo articolo è stato pubblicato il 05 gennaio 2014 alle ore 08:51.

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In conferenza stampa Hanru parla di battaglie: quelle economiche che coinvolgono tutti i musei in questi anni; quelle per adattarsi alla struttura dispersiva del Museo; quelle per riscrivere la storia secondo una nuova visione; ma anche quelle che ciascun artista affronta quando crea e gli sforzi per costruire un nesso di senso tra le opere e gli spettatori.
Con la prima mostra della sua direzione artistica al Maxxi, Hanru punta a «riconnettere l'istituzione con il suo pubblico». Del resto la «vera prima funzione di un museo è quella della memoria, la fonte d'ispirazione che guida la collezione e il suo allestimento».
Hou Hanru è uno dei pochi che hanno vinto queste battaglie. È riuscito a trasformare lo spazio in una sequenza di pieni e vuoti, ambienti pubblici e privati creando effetti sorpresa, sbarramenti e angoli intimi pur con un budget bassissimo. La mostra ha lo scopo di far parlare le due collezioni di arte e architettura – anima di questo Museo unico in Italia – e ci riesce pienamente. Dalla prima all'ultima sala sei dentro uno spazio alla Hanru che mescola suoni, immagini e materiali in un'apparente confusione dove però ogni cosa è al suo posto e ha senso di essere proprio lì dove è. Questo fanno, del resto, i grandi curatori e lui, che ha già alle spalle Biennali di chiaro nome e insegnamenti di eccellenza, ha dimostrato di sapere anche accettare sfide come la direzione artistica del Maxxi. Non era scontato che fosse proprio un curatore straniero del suo calibro ad accettare l'incarico.
Non basta ricordare/Remembering is not enough, sottolinea la necessità di non essere didascalici, di non prendere a riferimento date, stili o tecniche, ma di lasciarsi portare dalle immagini; un atto vivo dove la memoria è elastica e le opere producono sempre nuovi significati, come dicevano Focillon e Kubler e più recentemente Didi Huberman.
Apre la mostra la Stanza del genio: due divani in ferro e iuta di Franz West, il mappamondo di Atelier van Lieshout che pende nell'angolo, alle pareti piccoli disegni a pastello di Francis Alys che mostrano una sorta di battesimo, di immersione, un uomo errante di Sislej Xhafa e i magici disegni di Aldo Rossi, dagli studi per le caffettiere Alessi, ai teatri, alle planimetrie di città ideali, monumenti equestri, appunti di viaggio. Con quelle prospettive schiacciate e i rimandi continui tra realtà e utopia le opere conducono nel processo creativo, un cortocircuito tra stasi e movimento, colore e non colore, solitudine e moltitudine. Le immagini parlano e dialogano anche meglio e più intuitivamente che se fossero raggruppate per discipline (arte/architettura) o epoca (andiamo dal 1980 al 2009).
Proseguendo nella galleria siamo in uno spazio caotico ma con una certa compostezza che parla della città e dell'uomo. Il sasso di cartapesta ancora di Franz West e la donna primitiva in bronzo di Thomas Schutte, entrambi su grossi piedistalli, introducono la questione dell'arte come oggetto o, piuttosto, come azione e processo. Di questo ci parla il piccolo corridoio con gli enormi carboncini di Gilbert & George come sculture viventi e le loro fotografie che fondono arte e vita, mescolate con quelle anni Cinquanta del Living Theatre. Dalla parte opposta sfilano i modelli di città di Giancarlo De Carlo, Purini Therme, Yona Friedman; il meraviglioso ritratto aereo di Dresda di Gerhard Richter si fronteggia con le foto di Berengo Gardin e i grattacieli futuribili di Sacripanti, prima della triade Nan Goldin, Chapman brothers, McCarthy che reintroduce violentemente il tema del corpo, questa volta in chiave postmoderna.
Si potrebbe continuare a descrivere ogni singolo lavoro di questa mostra, e dire quanto sia stata azzeccata questa o quella scelta pur in assenza di una collezione così vasta. C'è una suggestiva proiezione della pianta di Roma che pulsa con al centro il Pantheon di Cino Zucchi, l'enorme cella vuota di Alfredo Jaar, i tavoli di Doris Salcedo che sbarrano il cammino, il progetto infinito di Fiorentino per Corviale. Le foto di Olivo Barbieri del Palazzetto dello Sport di Nervi e quelle di Luca Campigotto degli scali aerei rimandano alla questione dell'arte come luogo. La mostra, infatti, risponde anche a un altro quesito che è quello dello spazio, rendendo per la prima volta il Museo un contenitore coeso con le proprie opere, anche là dove meno te l'aspetteresti. C'è una foto di Araki sospesa sei metri da terra sopra la scala nera e il bellissimo tavolo curvilineo che raccoglie i progetti avviluppanti di Toyo Ito, i disegni compulsivi di Carlo Scarpa per la Tomba Brion, gli scritti sulle strutture spaziali modulari di Musmeci. Il video di Carsten Nicolai che ritrae in modo asettico l'Unité d'Habitation di Le Corbusier a Nantes potrebbe essere il punto a capo di questo discorso. Chiama in causa il padre putativo, Le Corbusier, che ci ha mostrato l'architettura come forma e la città come paesaggio. Usciamo con la sensazione che l'intera storia dell'arte e dell'architettura moderna può essere in fondo narrata dal punto di vista dello spazio e dall'esperienza che di esso fanno gli uomini ogni giorno.
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Marinella Venanzi, Non basta ricordare,
Maxxi, fino al 28/9/2014

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