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Questo articolo è stato pubblicato il 10 gennaio 2014 alle ore 10:53.
L'ultima modifica è del 10 gennaio 2014 alle ore 13:31.

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(LaPresse)(LaPresse)


Tra pochi giorni, il 17 gennaio, Muhammad Alì compirà 72 anni. Se sia stato davvero il più grande di sempre non è possibile affermarlo con certezza matematica, ma sicuramente chi sostiene questa tesi (e io sono tra questi) non commette peccato di eresia.
Perché allo stesso livello di Muhammad Alì, nell'Olimpo del pugilato mondiale, trovano posto solo due altri campioni: Ray Sugar Robinson e Joe Louis. Per tutti gli altri grandissimi che pure hanno segnato la storia della boxe (Marciano, Dempsey, Hagler, Duran, Frazier, Moore, Leonard, Foreman, Armstrong e Pep, solo per citarne alcuni) il gradino più alto del podio resta precluso.
Muhammad Alì è stato il più grande per almeno tre motivi: ha cambiato il modo di fare pugilato, al punto che nessun peso massimo prima e dopo di lui si è anche solo avvicinato al suo modo di combattere. Ha incontrato i più forti, battendoli. Ha subito un'interruzione della carriera, negli anni migliori, tornando a vincere quando tutti credevano fosse impossibile farlo.
Lo stile di Alì è stato inimitabile: un peso massimo che si muoveva sul ring con l'agilità di un peso medio, e di quelli veloci. Capace di scagliare colpi a ripetizione e di sparire dal ring rendendo impossibile la replica all'avversario. Capace di chiudersi a riccio per due minuti e poi scatenarsi, improvvisamente, senza che l'avversario riuscisse a capire cosa stava succedendo. Jab, diretto, gancio, montante, destro e sinistro: un'enciclopedia della boxe.
I suoi avversari non solo sono stati i pesi massimi più forti della sua epoca, ma tra i più forti di sempre: ha incontrato e battuto pugili come Foreman, Frazier, Liston, Patterson. Tutti campioni del mondo: pugili che ai massimi degli ultimi anni darebbero sculacciate come a un bambino capriccioso.
Rifiutandosi di combattere in Vietnam subì una condanna a cinque anni di carcere: gli fu tolta la licenza pugilistica dal 28 aprile 1967 al 28 settembre 1970, quando la sentenza di condanna venne annullata. Avrebbe potuto percorrere la via più facile, che gli era stata offerta su un piatto d'argento: un accordo per "fingere" di fare il militare e continuare a combattere, da campione del mondo in carica, restando negli Stati Uniti.
Molti dei suoi incontri restano indelebili nella storia del pugilato: con George Foreman, a Kinshasa nell'ottobre del 1974, riconquistò il titolo mondiale umiliando con un ko il demolitore di Joe Frazier (che nello scontro diretto subì sei atterramenti in due round, in uno dei quali Big George sollevò letteralmente Smoking Joe). Alì rimase in difesa per sette round, lasciando sfogare l'avversario fino a stancarlo: all'ottavo round piazzò una serie di colpi dalla quale un incredulo Foreman non riuscì a rialzarsi.
Con Frazier, che lo aveva battuto ai punti poco dopo il rientro dalla squalifica in un incontro valevole per il titolo (New York, 1970) si scontrò altre due volte. Vinse ai punti la rivincita, sempre a New York, ma tutti gli appassionati ricordano il terzo incontro, il famoso "Thrilla in Manila": 14 round senza un momento di sosta, da molti definito il più grande incontro di sempre. All'inizio del quindicesimo e ultimo round Alì è stremato ma Frazier rimane seduto, all'angolo. Il suo manager, Eddie Futch, fa segno che tutto è finito. Più tardi dirà ad Alì: "Devi amare il tuo pugile come fosse tuo figlio.Se non gli vuoi bene finirai per mandarlo a farsi massacrare o ammazzare, solo per i soldi".
I più giovani ricordano solo la parte finale della carriera del più grande, e i due ultimi inutili incontri contro Larry Holmes e Trevor Berbick: non era più lui, la Sindrome di Parkinson aveva iniziato a rallentare i movimenti e la parola del più veloce peso massimo di sempre.
Il suo ultimo capolavoro, ormai a 36 anni, è stato la riconquista del titolo mondiale contro Leon Spinks che lo aveva battuto pochi mesi prima. Una vittoria ai punti strappata all'ultimo round: trenta secondi del vero Alì, quello che danzava come una farfalla e pungeva come un'ape, e cintura riconquistata.
Grande pugile, il più grande, e grande uomo, capace di attraversare a testa alta le incongruenze di un Paese, gli Stati Uniti, che l'aveva mandato a vincere le Olimpiadi di Roma per poi accoglierlo, al ritorno in patria, come un "negro".
Girava sempre con la medaglia olimpica al collo, ma non gli bastò per restare seduto in un ristorante per soli bianchi: cacciato e inseguito da una banda di motociclisti si difese a pugni. La medaglia, macchiata di sangue, aveva perso tutto il suo fascino: la gettò nel fiume Ohio, persa per sempre.
L'oro gli fu restituito nel 1996, quando ormai logorato dalla malattia accese il fuoco Olimpico di Atlanta. Gli sportivi di tutto il mondo, con le lacrime agli occhi, non vollero vedere la sua lentezza e i suoi tremori: videro solo Muhammad Alì, il più grande.

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