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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2014 alle ore 08:13.
Dopo una pausa in fondo breve di cent'anni, una specie di starnuto della storia, la Cina è tornata alla fine del 2013 il paese più importante del mondo per il commercio di beni e di servizi. Fino al 1912 infatti, nonostante la dinastia Qing avesse limitato al porto di Guagngzhou il mercato con gli stranieri, la Cina era già stata, pur nell'incertezza delle statistiche del tempo, il maggior polo dei commerci mondiali. Gli Stati Uniti restano la singola maggiore economia, l'Unione europea il blocco di paesi più ricco, ma per la crescita globale nessun paese oggi conta più della Cina.
In realtà l'area euro - nel suo insieme - esporta quasi il doppio di Cina o Usa, ma la sua quota del mercato mondiale scende da anni allo stesso passo con cui quella cinese aumenta, mentre la quota americana resta stabile. In parte il declino europeo è dovuto alla propria disunione e al vuoto di influenza politica che ne deriva nei negoziati commerciali e finanziari. Così, nell'anno in cui gli europei votano afferrati da dubbi esistenziali sull'Unione, la Cina ci ricorda che unità e dimensioni determinano il peso politico e il benessere.
Pechino ama sottolineare la propria cautela: «attraverseremo il fiume posando il piede su una pietra dopo l'altra», ma nell'area di influenza cinese il potere economico occidentale è evaporato nel giro di un decennio. Oltre metà del commercio asiatico avviene ormai tra i paesi del continente e quasi sempre la Cina ne è motore oltre che controparte. Al ritmo attuale nel 2020 il renminbi sarà la valuta usata in metà delle transazioni cinesi con l'estero. I silenzi sulla vecchia ambizione europea di esportare in Asia il proprio modello sociale e politico sono ormai più che altro una forma di buona educazione.
Mentre cresce l'integrazione dei commerci, si riduce quella politica e la stessa America ha abbandonato l'obiettivo di esercitare controllo e influenza su ogni area.
Il 9 dicembre scorso i 159 paesi dell'Organizzazione per il commercio mondiale (Wto) hanno raggiunto un accordo globale di «facilitazione del commercio», ma l'autorità della Wto è ormai erosa da accordi tra gruppi di Paesi o addirittura da intese bilaterali. A Washington, il Foreign Department e il Pentagono nutrono dubbi sulla sostenibilità politica di accordi economici che creano aree circoscritte, separate da interessi non convergenti e regolate da giurisdizioni diverse. Anche le iniziative americane “trans-pacifiche” e “trans-atlantiche” rischiano di arrivare tardi, quando realtà economiche e rapporti di forza saranno ormai squilibrati. Le tensioni nel mare del Sud e dell'Est della Cina vengono osservate con lo stesso timore con cui gli esperti di osservano lo sfruttamento delle risorse naturali e gli squilibri ambientali. Su tutti questi tavoli Pechino vede nella frammentazione dell'ordine mondiale un'opportunità di influenza basata su un senso di sovranità nazionale che non ha gran riguardo per i doveri dettati dall'interdipendenza. La capacità europea di ricondurre al negoziato il gigante cinese va giudicata con disincanto. Nelle settimane e nei mesi seguiti agli incontri del 3° Plenum del partito, da Pechino erano arrivate continue rassicurazioni sull'interruzione nell'accumulazione di riserve valutarie e sulla diversificazione dal dollaro. In realtà da allora le riserve cinesi continuano a crescere a un tasso annuo del 14%, pari a 350 miliardi di dollari. I dati del Fondo monetario (Cofer) non ci spiegano con certezza quanti di questi capitali vengono investiti in Europa, ma i cinesi ripetono che non trovano in Europa mercati finanziari di dimensioni analoghe a quelle del dollaro. Gli eurobonds sarebbero l'alternativa. Nel 2012 Wen Jiabao affermò che Pechino desiderava investire nei bond emessi dall'Esm, il fondo salva stati europeo, «con l'obiettivo di sostenere l'economia europea». Ma l'Esm ha emesso finora obbligazioni a lungo termine per solo 10 miliardi di euro (di più ha fatto l'Efsf) e gli acquisti cinesi hanno volumi trascurabili rispetto all'attivo di bilancia dei pagamenti. La fame di euro continua - nel 2012 all'apice della crisi le riserve globali in euro erano scese solo dell'1% - ma la rinuncia agli eurobonds dimostra che sia da un punto di vista economico sia politico, la scarsa integrazione europea rappresenta un ostacolo a se stessa. Priva di unità, l'Europa è esposta ai rischi che la politica monetaria della Fed e di altre banche centrali fanno correre a tutti, gonfiando nuove bolle finanziarie. Non avendo un governo economico e avendo un rigido obiettivo di inflazione, l'area euro non può contrastare l'apprezzamento dell'euro e trasferisce in tal modo reddito verso altre aree valutarie.
Per l'area euro si tratta forse dell'ultima occasione. Negli ultimi mesi i capitali si sono trasferiti dai Paesi emergenti verso l'Europa. Inoltre gli Stati Uniti stanno riducendo il disavanzo commerciale e importano meno capitali. In fondo se lo spread italiano è sceso sotto i duecento punti è anche perché Washington continua a stampare moneta che i Paesi emergenti assorbono in misura minore. Entro i prossimi vent'anni un altro miliardo di abitanti dei Paesi emergenti approderà alla classe media, offrendo respiro e impulso alle economie occidentali invecchiate a patto che esse siano capaci di liberarsi da un abito intessuto di pessimismo e diffidenza e che è ormai diventato soprattutto una fuga dalle responsabilità.
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