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Questo articolo è stato pubblicato il 12 gennaio 2014 alle ore 08:48.

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Il primo film dell'artista iraniana Shirin Neshat, Donne senza uomini (2009), tratto dall'omonimo romanzo di Shahrnush Parsipur, è intessuto d'immagini in cui fluttua la memoria di un passato in cui il giardino era per la donna grembo e rifugio, ma anche specchio di una condizione. Una protagonista, emula di Dafne, si trasforma in albero diventando il centro di gravità di altre quattro in fuga dalla violenza maschile. Nel volgersi alla Natura riproducono tuttavia l'isolamento di una società di sole donne. Tutte salvo una, quella che, sposato il Giardiniere Gentile, genera con lui un fiore. E riafferma il legame tra donna e giardino.
Anna Vanzan ricorda questa come altre opere di artiste contemporanee di matrice islamica per raccontare come, da Kabul a Beirut, molte donne stiano realizzando orti sociali e spazi pubblici, riaffermando il rapporto col giardino. Scoprendone la matrice originaria: il cosiddetto giardino islamico risale infatti alla Persia zoroastriana anteriore alla conquista arabo-islamica. Residuo di un mondo precoranico, oasi al riparo da sguardi estranei, mondo altro rispetto a quello dei vincitori, è memoria di un precedente e in parte perduto paridaiza, il giardino cintato in cui donne e uomini potevano anche giocare ad armi pari. Pure le dimore di Circe e Alcina sono immerse in ameni giardini, visti tuttavia nella nostra cultura come pericolosamente seducenti, luoghi capaci di stregare il valore maschile, spegnere la sete di eroiche imprese, far cadere nell'oblio le cure terrene.
Mentre non avviene così nell'Islam, e chissà non sia la diversità di contesto ambientale a spiegare la minore apprensione di fronte ai piaceri offerti da una natura sapientemente orchestrata. Certo quando il paesaggio dominante è il deserto - al-sahara - anche un semplice ciuffo di palme intorno a una sorgente parrà giardino, occasione di vita e ristoro, non certo insidia. La tranquillità di fronte al giardino potrebbe tuttavia avere anche un altro motivo: come ricorda Anna Vanzan, Adamo è nel Corano altrettanto responsabile di Eva per avere ceduto all'inganno del diavolo: non la donna induce l'uomo a mangiare il frutto proibito, non è lei la tentatrice e ingannatrice, non istiga l'uomo a disubbidire al suo Creatore, né gli si ribella. E così anche dal giardino non può arrivare altro che bene: negli ospedali psichiatrici islamici i malati di mente venivano ospitati in stanzette che davano da un lato su un angolo fiorito, dall'altro su un cortile con fontane. Così nel manicomio di Edirne visitato nel 1651 dal grande viaggiatore turco Evliya Celebi. Il giardino riservato dal Corano ai giusti ha fiumi d'acqua incorruttibile, sorgenti abbondanti, ombre rinfrescanti e splendidi tappeti verdi, fiori senza spine e frutti d'ogni genere. Il giardino terreno è hortus conclusus, ideale per celare a sguardi estranei la vita privata, la presenza femminile. Non è però, come nella visione orientalista, luogo di molli, estenuati piaceri. Al contrario, è teatro di operosità intensa.
Se le case dei mussulmani sono generalmente spoglie, il cortile-giardino è arredato con recipienti in metallo o marmo, fontane, gabbie per gli uccellini, abbellito dai delicati intarsi lignei alle finestre. Perché è qui che scorre la vita, come testimoniato anche da fonti letterarie e pittoriche, qui che le donne cucinano, cardano la lana, zangolano il burro, tessono, partoriscono, lavano i panni, filano, mondano verdura e cereali, badano ai bambini. Certo possono chiacchierare, fare musica, leggere, danzare. Ma non al modo di certa letteratura e pittura orientalista - esemplari le tele di Fabio Fabbri e Benjamin Constant - dove in giardino si coltiva la lussuria, non si fa altro che fumare, bere caffè, farsi leggere la fortuna e intrattenere da musici e ballerine. Un altrove in cui incarnare sogni maschili di spensierato e grossolano piacere è stato vagheggiato anche dall'islam, e non solo in certi racconti delle Mille e una notte: in una leggenda di segno contrario a quella rappresentata dall'albero della fertilità nell'affresco duecentesco di Massa Marittima, con falli appesi ai rami, si favoleggiava di certe isole tropicali dove cresceva un albero, il waq waq, che produceva frutti d'aspetto femmineo.
Anzi, vere e proprie donne però mute, a parte appunto il verso wak-wak, appese ai rami per i capelli, a disposizione degli uomini che potevano staccarle dall'albero e goderne a loro piacere. Ma si tratta appunto di un altrove. Di norma il giardino è scenario d'incontri gentili, vi sbocciano teneri amori il cui emblema sono la rosa e l'usignolo: gol-o-bolbol nell'espressione persiana. La più celebre coppia di amanti è quella di Leila e Majnun, raffigurati fanciulli mentre, in giardino, ascoltano le parole del maestro oppure fanno i compiti: anche le bambine andavano a scuola, giacché valeva anche per loro l'ingiunzione della Sura coranica - Iqra (leggi!). Né erano escluse dallo studio dei sacri testi: la celebre mistica dell'ottavo secolo Rabi'ah al'Adawiya è resa fragrante dalle recitazioni notturne del Corano in giardino.
Alcuni splendidi giardini Moghul sono stati creati da donne. Come Nur Janan, che rimasta vedova a 34 anni sposò l'imperatore Jahangir e diresse la realizzazione di giardini a Lahore, Srinagar, Agra, aprendoli a funzioni pubbliche e commerci, divertendosi a farvi raffigurare gli occidentali nei loro esotici costumi. Tra le ottomane l'amore per il giardino era tale che alcune signore, quando si recavano in pellegrinaggio alla Mecca, si portavano appresso piccoli giardini a dorso di cammello: sbagliavo a ritenere orti e aiuole portatili un'invenzione del nostro tempo.

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