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Questo articolo è stato pubblicato il 12 gennaio 2014 alle ore 08:46.

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Sarebbe ingiusto affermare che la storiografia artistica impegnata a mettere a fuoco l'arte del rinascimento dell'Italia centrale, abbia obliterato la figura del pittore Antonio Aquili detto Antoniazzo Romano, soprannome, quest'ultimo, col quale egli stesso firmava le sue opere, dichiarando apertis verbis la propria origine urbica. Ciò non di meno la bella mostra allestita nelle sale al pianterreno di palazzo Barberini è la prima di taglio monografico dedicata a questo eccellente protagonista del tardo Quattrocento, che definire "raffinato" è riduttivo. Antoniazzo fu sicuramente il migliore dei pittori attivi a Roma tra XV e XVI secolo, tutti o quasi d'importazione e provenienti dalla Toscana, dall'Umbria e dalle Marche, qualcuno anche dal Lazio, ma nessuno così radicato nella cultura romana da apparire quanto lui autonomo rispetto ai contemporanei. La sua origine ha contribuito a connotare uno stile che la critica ha delineato nella corrispondenza con ascendenti d'alto rilievo come Benozzo Gozzoli, Melozzo da Forlì, col quale Antoniazzo fece società nel 1480 e Piero della Francesca, che a mio parere è il più autorevole, oltre ai maestri minori che entrarono in un rapporto di scambio con l'Aquili, vedi Pier Matteo d'Amelia.
Potendo osservare con uno sguardo finalmente sintetico la sequenza dei quadri e alcuni affreschi di Antoniazzo oggi esposta nella mostra, e dopo aver ricapitolato i riferimenti più o meno diretti che contribuirono alla definizione della sua pittura, spiccano nell'Aquili caratteri assolutamente autonomi. Il primo è la limpidissima tenerezza, che vediamo nelle fulgide rappresentazione della Madonna col Bambino, per esempio nell'esemplare del Pontifico Collegio Scozzese, databile intorno al 1475, o in quello del museo Diocesano di Velletri, splendido nei filamenti di luce dorata che si irradiano dietro la testa di Maria, un particolare che giustifica il giudizio di Luisa Mortari che ne magnificava «l'incanto poetico dell'essenziale semplicità».
Se l'incanto poetico e l'essenzialità delle forme sono dati comuni ad altri maestri del Rinascimento tardo quattrocentesco fra Perugia e Roma, la tenerezza che le immagini sacre di Antoniazzo effondono brilla di un fervore racchiuso entro un rigore che potremmo dire arcaico e monumentale. L'aspetto che mi ha più favorevolmente colpito nella mostra è l'insistere, nel saggio di Anna Cavallaro, curatrice di questa rassegna insieme a Francesco Petrocchi, sulla ripresa voluta da Antoniazzo, e forse un po' indotta dai suoi committenti, dei modelli delle icone romane, in particolare medievali. La presenza nel percorso espositivo di palazzo Barberini del Cristo in trono detto il Salvatore, conservato a Sutri, un Cristo di stretta derivazione bizantina, ma romanamente classico, è sintomatica del ritorno devozionale di Antoniazzo alla pittura urbica precedente il Cavallini. Nella mostra sarebbe pretenzioso trovare la duecentesca Madonna di Sant'Agostino, di norma collocata sull'altare maggiore della chiesa di eponima, ciò non toglie che il parallelo che corre fra lei e la grande tavola dell'Aquili a Velletri, datata 1486, sia chiarificatore non solo della somiglianza che unisce le due rappresentazioni mariane, distanti un paio di secoli, ma anche della profonda concezione che anima la pittura di Antoniazzo, impegnato nella realizzazione di soggetti devoti e nell'esaltazione di una majestas intenerita, luminosa e affabile. Tuttavia egli non ha mai rischiato di flettere verso atteggiamenti edulcorati, preoccupato com'era di controllare ogni cedimento sentimentale in una compunzione calibrata di gesti e di espressioni, oscillante tra la regalità malinconica di Maria e la lucida ieraticità dei santi.
Non dimentichiamo che riprese delle icone medievali riaffiorano spesso e a intermittenza nella produzione di quadri romani. La mente non può che risalire all'interessante e per molti aspetti ancora irrisolto caso del pittore Lorenzo Carli, che nell'ultimo decennio del Cinquecento teneva bottega presso Campo Marzio ed era specializzato nelle copie delle icone mariane alto medievali. Nella medesima bottega nel 1596 lavorava, in qualità di aiuto, il Caravaggio. Sarebbe quindi interessante studiare se questi fenomeni di revival della classicità cristiana medievale siano puramente episodici, o se possano inquadrarsi in uno specifico filone di opere di destinazione devota e per così dire senza tempo.
Torniamo ad Antoniazzo. La tavola di Montefalco con i Tre santi è pierfrancescana nella purezza dell'azzurro del manto di santa Illuminata e di san Vincenzo di Saragozza, nell'ampio ricadere delle pieghe e nella perfetta simmetria delle figure, simmetria che a sua volta è arcaica. In questa stupenda tavola, come in altre precedenti, in cui Antoniazzo opta per soluzioni più scultoree e taglienti nei contorni forse dovute alla vicinanza di Andrea Bregno, si percepisce che le figure seguono le regole sintattiche di una severa messa in posa. La notiamo nel modo di dirigersi degli sguardi, nella posizione delle mani, delle braccia e dei piedi. Tutto è in posa, ma tutto sembra lievitare in una dimensione che dal piano terreno della santità trapassa in quello religioso di un diverso "incanto poetico".
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Antoniazzo Romano pictor urbis. 1435/1440 - 1508», Roma, Palazzo Barberini fino al 2 febbraio. Catalogo Silvana Editoriale

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