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Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2014 alle ore 12:02.

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La scelta tra assicurazione obbligatoria di Stato o privata contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali non è dietro l'angolo in Italia. Anche se in questi giorni di convulso agenda setting nessuno ne ha riparlato, ci ha pensato il presidente dell'Inail, Massimo De Felice, a rimettere in fila le ragioni che renderebbero difficile quest'eventuale liberalizzazione. L'occasione colta da De Felice, un professore di matematica finanziaria della "Sapienza" ben poco mediatico e messo alla guida dell'Istituto da Elsa Fornero due anni fa, è arrivata con una conferenza tenuta la scorsa settimana all'Accademia dei Lincei.

Le basi di calcolo utilizzate per determinate il premio commisurato all'assicurazione di una rendita da infortunio comprendono, ha ricordato il presidente dell'Inail, dati contabili retrospettivi riferiti a diversissime classi di rischio, e sono riferiti all'intero universo nazionale del mercato del lavoro. Non solo. La revisione del premio è periodica e legata all'andamento infortunistico osservato, per garantirne il massimo di adeguatezza e proporzionalità. Siamo fin qui nella logica di come si "prezza" un rischio che appartiene anche al privato, si pensi ai meccanismi di bonus-malus tipici dell'Rc auto, senza dimenticare però che in Italia l'anno passato hanno circolato, secondo l'Aci, 4,2 di veicoli senza assicurazione, tra cui 2,8 milioni di automobili (l'8% del totale).

Le argomentazioni si fanno più stringenti quando De Felice affronta l'ostacolo delle riserve tecniche che, secondo le definizioni della Direttiva Solvency II, corrispondono al valore attuale che un'impresa di assicurazione dovrebbe pagare se trasferisse tutte le sue obbligazioni assicurativa ad altra compagnia. Ebbene, le riserve Inail non rappresentano il valore attuale complessivo delle prestazioni dovute ai lavoratori infortunati ma il "valore di base della rendita iniziale", mentre gli adeguamenti per aggravamento dell'assicurato o per indicizzazione economica sono coperti a ripartizione con una quota dei premi incassati nell'anno. Come trasferire queste rendite "in-essere" ai privati? Altro argomento: l'automaticità delle prestazioni: se un lavoratore s'infortuna ha diritto all'assicurazione anche se il datore non ha pagato i premi. Un privato potrebbe sostenere quest'onere e come lo contabilizzerebbe? Ancora: come gestirebbe un privato gli effetti del ritardo di insorgenza di malattie o il riconoscimento, con effetto retroattivo, di nuove malattie professionali? Come risolvere i problemi tipici di un'assicurazione privata obbligatoria che tende ad escludere la copertura delle imprese più rischiose?

Insomma, anche se non mancano i sostenitori di una "privatizzazione dell'Inail" e per trovarli non si deve certo risalire fin alle dispute degli anni Novanta del secolo scorso (ricordate Alfonso Desiata, numero uno dell'Ania, contro l'allora presidente dell'Inail Pietro Magno, che invocava lo "scudo" dell'articolo 38 della Costituzione e i principi di solidarietà e automaticità delle prestazioni) gli argomenti proposti sembrano davvero inoppugnabili. Se poi si dovesse tener conto anche delle attività non assicurative garantite dall'Inail, il caso è proprio chiuso: l'Istituto svolge verifiche sugli impianti, ricerca, formazione, incentiva gli investimenti in prevenzione e con i suoi programmi di riabilitazione reinserimento lavorativo riesce a ridurre i costi dell'inabilità. De Felice lo ha spiegato in termini molto persuasivi, disambigua per usare una terminologia nota ai wikipedisti. Chi volesse riproporre il tema, dunque, lo faccia tenendo conto di tutte le premesse e e conseguenza tecniche (oltreché finanziarie) della liberalizzazione.

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