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Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2014 alle ore 06:41.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:40.

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È positivo che ci si accorga dell'esistenza di un problema che cova sotto la cenere, per evitare che abbia a perpetuarsi senza la ricerca di una soluzione. Ma è peggio pensare di risolvere la questione in modo non appropriato.
Prima della web tax nella legge di Stabilità 2014 ci sono stati illustri precedenti: il Secit si rese conto che le compagnie di assicurazione, soggetti esenti senza tale diritto, riuscivano a detrarre l'Iva costituendo società di costruzione e vendita, e poi incorporandole quando i lavori erano finiti. Ne nasce la circolare 57/E91, con la stravagante teoria – sempre caduta in giudizio – della società senza impresa, che avrebbe dovuto applicare l'Iva sui canoni di locazione (obbligo allora esistente per gli immobili strumentali), per non detrarla all'acquisto degli immobili necessari per conseguire i proventi.
Ma torniamo al comma 33 della legge di Stabilità: le aziende italiane potranno comprare pubblicità online solo se il prestatore ha una partita Iva italiana. A cosa serve? L'Iva era e rimarrà dovuta in reverse charge dal committente e – come detto espressamente a livello Ue – l'identificazione non fa presumere l'esistenza di una stabile organizzazione, presupposto per la tassazione reddituale.
Il problema esiste certamente: la Commissione europea, in simbiosi con l'Ocse (competente per la fiscalità internazionale sul reddito, che è il vero problema), ha nominato un gruppo di esperti (nessun italiano) che si sono impegnati a presentare una proposta condivisa in tempo utile per il G20 di settembre. Non ha evidentemente molto senso pensare a disciplinare il problema dal solo nostro punto di vista.
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