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Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2014 alle ore 14:14.
L'ultima modifica è del 15 gennaio 2014 alle ore 13:29.

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Niente stage, niente lavoro? Dipende: in Italia, anche con uno o più tirocini in curriculum, la probabilità di assunzione si "alza" di appena il 6%. Meno della metà rispetto alla Spagna (14%), un sesto esatto della percentuale registrata in Francia (36%). Il rapporto McKinsey "Education to Employment" 2013, redatto con più di 8mila interviste tra giovani, istituzioni e datori di lavoro di paesi Ue, ribadisce il blocco italiano nell'inserimento professionale degli under 30. Con la conclusione che «internship, in Italia, non forniscono ai candidati le abilità (e il lavoro) richiesti».

Gli intralci sono quelli denunciati dal ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza: poche esperienze di lavoro, pochi stage e il cosiddetto mismatch, il gap tra cumulo teorico e competenze pratiche che fa perdere terreno alla formazione professionale in Italia. Il 47% dei datori di lavoro sostiene di «non trovare profili adeguati» tra le candidature che si sommano su ogni posizione aperta. La media Ue non va oltre il 33%, con il 31% della Svezia, il 26% della Germania e addirittura il 18% del Regno Unito. La lacuna si scava anche altrove, se è vero che proprio in Germania (disoccupazione giovanile al 7%) un terzo delle Pmi lamenta il vuoto di qualifiche adatte tra i potenziali neoassunti.

Ma nel nostro paese il problema si allarga a scarsa trasparenza nei criteri di selezione (quasi sempre sciolti in formule generiche come «buona attitudine al lavoro in team» o «esperienze su campo») e retribuzioni sotto la media. Senza contare il gap di percezione tra il 72% di istituti e università che ritengono «preparati» i propri diplomati e il 58% dei datori di lavoro che sostiene il contrario. Risultato: tra contratti a costo zero e rapporti di comunicazione azienda/università mantenuti con regolarità solo dal 41% delle società, meno di un giovane su due (il 46%) riesce a formalizzare un tirocinio. Nel resto della Ue si viaggia oltre a una media del 61%.

E se lo stage va in porto, non è detto che spiani la strada a un contratto. Anzi. La formazione fuori dalle aule di liceo e università aumenta la probabilità di centrare assunzione o un rapporto di collaborazione continuativa del solo 6%. I cugini del sud Europa ci superano in blocco: lo stage fa crescere le chance professionali del 14% in Spagna, del 15% in Grecia, del 21% in Portogallo e addirittura del 35% in Francia.

In altre parole, un neolaureato che fa il salto in azienda a Roma o Milano ha un sesto delle possibilità di firmare un contratto rispetto ai suoi colleghi (e coetanei) di Parigi. È vero: il Regno Unito fa peggio, con un rapporto stage/probabilità di assunzioni pari al 3%. E la Germania non si spinge oltre al 6% la stessa percentuale calcolata tra i tirocinanti di aziende italiane od operative in Italia.

Ma nei college britannici, le opportunità di lavoro sono segnalate con alert personalizzati sui siti delle facoltà. E nei 16 land tedeschi, il surplus modesto garantito dal solo tirocinio si bilancia a un rapporto di fiducia tra valore della laurea e opportunità professionali: più i un laureato su due (il 53%) vede nel suo corso di studi un valore aggiunto in funzione lavorativa.

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